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Il cuore “morto” torna a battere

A Padova l’equipe del cardiologo roveretano Gino Gerosa ha eseguito con successo il primo trapianto di cuore con un organo prelevato da paziente di cui era stata dichiarata la morte cardiocircolatoria. Il medico: "Questa tecnica potrà aumentare del 30% donatori e trapianti"


Luca Marsilli


PADOVA. L’equipe del cardiologo roveretano Gino Gerosa ha eseguito con successo a Padova il primo trapianto di cuore con un organo prelevato da paziente di cui era stata dichiarata la morte cardiocircolatoria. Significa che il suo cuore per 20 minuti non ha avuto alcuna attività elettrica registrabile strumentalmente. Fino al tentativo del gruppo padovano, in questo condizioni l’organo si considerava non più utilizzabile. Quella che si deve al centro di cardiochirurgia guidato da Gerosa, è una innovazione che ha anche fortissime implicazioni concrete: aumenta in modo significativo il numero di possibili donatori e, di conseguenza, quello di trapianti che si potranno effettuare. La prassi nel nostro Paese finora prevedeva l’epianto cardiaco di fatto solo su pazienti dichiarati morti cerebralmente: decorso il prescritto periodo di osservazione, si procede contestualmente alla disattivazione dei macchinari che tengono il corpo in vita e all’espianto.

Dottor Gerosa, dal punto di vista dei numeri, forse il dato più facilmente comprensibile da profani, cosa cambia?

Il numero di organi utilizzabili per i trapianti: l’aumento è stimato in circa il 30 per cento. Oggi noi abbiamo 850 pazienti in attesa di trapianto in Italia e riusciamo a compiere 250 trapianti l’anno. Potendo utilizzare anche i cuori espiantati da pazienti a seguito di morte per arresto cardiocircolatorio possiamo pensare di arrivare a 330 e non è una differenza da poco.

Perché il problema è soprattutto la disponibilità di organi. Il vostro è il primo tentativo in Italia: nel mondo qualcun altro sta già operando così?

In realtà la situazione italiana da questo punto di vista è molto particolare. Per la nostra normativa servono 20 minuti di totale assenza di attività cardiaca per dichiarare la morte di un paziente. In gran parte del resto del mondo ci sono tempi molto inferiori: dai 2 minuti dell’Australia ai 5 di tutto il mondo anglosassone. Tempi comunque compatibili con quello che si considerava fino a oggi un periodo di inattività dell’organo tale da non comprometterne l’utilizzabilità.

Ora si è dimostrato che in realtà il cuore è in grado di sopportare senza danneggiarsi un lasso di inattività di 20 minuti.

In realtà anche di 40: passa parecchio tempo tra quando il cuore cessa di battere a quanto si spegne anche la sua ultima attività elettrica, quella che viene rilevata con l’elettrocardiogramma. Abbiamo dimostrato in concreto che l’organo può essere riavviato dopo 40 minuti.

Come siete arrivati a questo tentativo?

Ci lavoravamo da tempo, sperimentando e studiando e eravamo molto fiduciosi che questa strada fosse percorribile con successo. Quando dal Centro Trapianti è arrivato l’ok a questo tipo di intervento, eravamo pronti e preparati.

Ci si può aspettare che questa nuova tecnica diventi patrimonio comune in tempi brevi?

Certo. Abbiamo già programmato un incontro con i colleghi degli altri centri trapianti - sono 16 quelli attivi in Italia in questo momento - per condividere le basi teoriche e pratiche della nostra esperienza. Noi diciamo, per “disseminare” questa tecnica. È un’arma in più che abbiamo a disposizione per combattere quelle cardiopatie che non sono curabili in modo diverso dal trapianto. Daremo la massima diffusione ai risultati raggiunti.

Nel caso specifico, quale era la condizione del paziente che ha ricevuto il trapianto?

Un paziente di 46 anni, sofferente di una cardiopatia congenita. Era già stato operato per due volte al cuore, ma senza che il problema fosse stato superato. Questo è il suo terzo intervento.

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