l'anniversario

Dieci anni di Muse, il museo che fa volare anche gli asini

Là dove c'era una fabbrica di pneumatici è nata una fabbrica di cultura. L'idea di Renzo Piano: eliminare le barriere, fisiche e intellettuali. Il professor Andreaus: "Chi visita il museo di scienza sa poco e non deve sentirsi in colpa se non ha un dottorato"


Jacopo Strapparava


TRENTO. Dicono che Renzo Piano, nel supervisionare la progettazione del Muse, abbia detto: «Qui bisogna far volare tutto, anche gli asini».

Il risultato, lo avrete visto di sicuro, almeno una volta, negli ultimi dieci anni. Gli animali impagliati appesi al soffitto, a vari livelli d’altezza. Trasversalmente ai piani, nei diciotto metri della struttura. Assicurati con cavi d’acciaio. Immortalati, grazie alle moderne tecniche di tassidermia, nelle pose più realistiche possibili: la vita quotidiana, la caccia, la lotta, il corteggiamento. Il visitatore li vede volteggiare nel vuoto. Sembra quasi che danzino, è stato detto. Sembra siano fuggiti dalle polverose teche dei vecchi musei.

Ma attenzione a snobbare il tutto come la trovata estemporanea di un archi-divo estroso. Il Muse, dieci anni fa, nacque con l’idea ambiziosa di farne non solo un museo, ma un vero e proprio progetto architettonico e intellettuale: là dove c’era una fabbrica di pneumatici, doveva nascere una fabbrica di cultura.

«Il Muse, per Trento, ha rappresentato una rottura degli schemi precostituiti della concezione di museo» commenta Michele Andreaus, ordinario di economia aziendale del nostro ateneo nonché direttore del Museo Diocesano di piazza Duomo. «È cambiato tutto. Un nuovo paradigma. Non più un luogo deputato alla conservazione, all’approfondimento, alla ricerca, ma un luogo d’incontro, un luogo per la divulgazione».

Per la verità già nel vecchio Museo tridentino di via Calepina la tendenza era a modernizzare la visita e seguire questa nuova impostazione di matrice anglosassone. Ma gli spazi del vecchio palazzo Sardagna erano troppo piccoli, troppo stretti, per darvi piena realizzazione.

Nel pensare la struttura del nuovo museo si guardò a esempi illustri: la Città della Scienza e dell’Industria di Parigi, il Science Museum di Londra, l’Exploratorium di San Francisco – tutti basati sul concetto di interattività. E pure Renzo Piano, nel progettare l’edificio, tenne conto di questa linea di pensiero. Ecco dunque gli animali scappati dalle teche e sospesi nel vuoto, il ghiacciaio che tocchi con le mani, le officine dove sperimentare la stampante 3D, le video-guide interattive, la serra con la foresta pluviale.

Ed ecco, in parallelo, le trovate architettoniche di Renzo Piano. Il grande atrio, dove sono sistemate le biglietterie, pensato come «grande piazza coperta», «un luogo di transito», «prosecuzione ideale del viale alberato che attraversa il quartiere da nord a sud». Gli spazi espositivi, pensati per garantire la massima flessibilità negli allestimenti.

Tutto all’insegna di un’idea di fondo: eliminare le barriere, sia fisiche – nel progetto del museo – sia intellettuali – nel modo di aprirsi al pubblico. Rendere tutto alla portata di tutti.

Un museo che stia bene su Instagram. Un museo dove fare l’aperitivo. Per dirlo con le parole di Piano: «Entrare nel museo è entrare dentro la terra, dentro la montagna che si vede da fuori, cominciando un viaggio che parte dai ghiacciai e arriva fino alla storia del nostro pianeta. È tutto connesso, non ci sono confini e limiti. Non ci sono nella natura e non ci devono essere nel museo. L’idea di interconnessione e trasversalità accomuna le strutture dell’edificio e il percorso che si dipana al suo interno».

«Il modello mi sembra vincente» conclude Andreaus. «Il punto fondamentale è che chi visita il museo di scienza sa poco e non deve sentirsi in colpa se non ha conseguito un dottorato. Anche perché, detto tra noi, chi ha un dottorato al museo probabilmente non viene comunque».

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