Le foto di Dino, il burbero dal cuore d'oro che ha raccontato come pochi questa terra
Era uno di noi, Dino. Era «IL» fotografo. Anzi: il nostro fotografo. Il grillo parlante. La coscienza critica. Il burbero gentile. Generoso, sensibile e insieme dissacrante, lui arrivava dove le parole nulla potevano: con le sue foto. Con le sue immagini. Con il suo sguardo sempre originale, insolito, diverso.
Penso che non ci sia, in Trentino, una persona che non l’abbia visto almeno una volta. Perché lui consumava ancora le suole delle scarpe per essere sul posto. Per essere ovunque. Senza mai essere invadente. Ma sempre partecipando, vivendo ciò che fermava in uno scatto. Con rispetto. Per le persone. Per il suo lavoro. Un lavoro che ha amato fino all’ultimo. Nei giorni di gioia come in quelli più complicati. Quando fare una foto significava entrare in una vita, raccontare una morte, una carezza non data. Dino Panato era in campo per un grande successo e per una cocente delusione. Per le piccole e per le grandi cose che ogni giorno costruiscono la storia di una comunità. Accadeva una cosa, anche apparentemente minuscola, e lui c’era. Sullo sfondo. Ma c’era. Ed è stato così fino a pochi giorni fa, quando ha chiamato - come faceva ogni giorno - per segnalare una notizia, per complimentarsi, per arrabbiarsi. All’infinita ricerca dell’imperfetta e in fondo un po’ effimera perfezione di un giornale che esce ogni giorno: miracolo, da consumare in fretta, di carta, d’inchiostro e di foto. Sì, soprattutto di foto, caro Dino.
In oltre trent’anni ha raccontato come siamo cambiati. Talvolta con un velo di malinconia e di nostalgia per come è cambiato il mestiere, per come è cambiata la società. Ma sempre con la pulizia di occhi capaci fino all’ultimo di meravigliarsi, di alzarsi oltre l’orizzonte del banale per scoprire la bellezza del particolare. Gli siamo tutti grati di quello che ci ha detto e insegnato. Camminare nelle vicende quotidiane con lui è stato un onore. Se rubassi una parola al calcio, uno dei tanti sport che amava e che sapeva fotografare in modo speciale, direi che è stato la nostra bandiera. Idealmente, con oggi togliamo dalla scena la sua maglia.
Io lo ringrazio soprattutto per due cose. D’avermi aspettato - lo so, suona assurdo, ma è ciò che non riesco a non pensare - per morire. Ero via per lavoro e sono riuscito a dargli una carezza - anche da parte di tutti i colleghi - solo alle 13 di sabato 2 giugno. Ma mi ha davvero dato l’idea struggente d’avermi aspettato. Ed è stato grande ancora una volta. Poi non dimenticherò mai l’entusiasmo con il quale ha accolto la mia idea di dar vita a una rubrica che riempisse di ricordi e di parole le sue foto: l’AmarcorDino è nato così. Ma gli episodi che ognuno di noi potrebbe raccontare sono prossimi all’infinito. Lui non avrebbe gradito troppo inchiostro. Non siate autoreferenziali, ci avrebbe detto. Non mettetevi al centro della storia (come sto rischiando di fare io anche adesso), avrebbe raccomandato. Perché noi siamo testimoni, non protagonisti.
Ma oggi il protagonista sei tu, caro Dino. Non certo perché sei morto. Ma perché hai riempito anche le nostre vite della tua vita, del tuo entusiasmo, della tua passione. Noi ci saremo per te e per la tua famiglia. Loro lo sanno, non temere.