«Sul fine vita, il vuoto di politica e medici» 

La sentenza della Cassazione. Il dottor Fabio Cembrani: «Alla fine hanno deciso i giudici, ma si tratta di un tema fondamentale per tutti che va sottoposto all’opinione pubblica»


Andrea Selva


Trento. «sul fine vita è andata come previsto: hanno deciso i giudici nel grande vuoto della politica, in uno scenario di grande incertezza per la categoria medica». lo ha detto ieri il dottor fabio cembrani, direttore della medicina legale dell’azienda sanitaria di trento, che già nel corso dell’estate era intervenuto per denunciare i ritardi della politica e il silenzio degli ordini professionali su un tema fondamentale che dovrebbe - invece - essere portato all’attenzione dell’opinione pubblica, magari con la procedura del referendum come era avvenuto per divorzio e aborto.

La sentenza

L’ultimo atto è la sentenza della Corte Costituzionale che (dopo aver lanciato l’appello al legislatore) ha deciso che “non sempre è punibile chi aiuta al suicidio”, assolvendo Marco Cappato che si era “auto-accusato” per aver accompagnato Dj Fabo a morire in Svizzera. Sul fatto specifico Cembrani preferisce non intervenire, in attesa che sia disponibile (oltre che il verdetto) anche la sentenza completa della Consulta, ma si dice comunque amareggiato per il ritardo della politica: «Avevano avuto un anno di tempo, poi il governo è saltato, ma la realtà è che la politica non ha tenuto conto dell’ultimatum dei giudici. Un “vuoto” che denota anche una certa ipocrisia nel non prendere posizione perché si tratta di temi scomodi che scontentano sempre qualcuno».

La posizione dei medici

Intanto -spiega Cembrani - resta il fatto che l’«apertura» dimostrata dall’autorità giudiziaria va in contrasto con la deontologia medica: «Ricordiamoci che il ruolo del medico è quello di salvare le persone, non di aiutarle a morire. E questo è un tema molto delicato su cui la categoria professionale dovrà interrogarsi. Il rischio è che in questo scenario ci rimettano i più deboli, cioè quelli che non sono in grado di decidere».

L’obiezione di coscienza

Se la Cei invoca l’obiezione di coscienza da parte dei medici per Cembrani - cattolico - non è questa la soluzione del problema: «Si tratta di una scappatoia o comunque di una fuga che non affronta il problema, ma lo sposta, come avviene per l’aborto dove le donne, di fronte a elevatissime percentuali di obiettori , si trovano costrette a spostarsi lontano da casa per interrompere la gravidanza». Le soluzioni? «Si apra un dibattito serio, a livello di opinione pubblica, magari con lo strumento referendario. Va spiegata alla gente la differenza che c’è tra l’interruzione delle terapie, l’aiuto medico a morire (come avviene in Svizzera, dove l’atto finale della procedura assistita spetta comunque al diretto interessato) e l’eutanasia (dove c’è un intervento esterno). A livello più generale bisogna scegliere tra un medico che “salva” o un medico che “uccide”, un medico che “accompagna” o un medico che “anticipa”, un medico che toglie il dolore e un medico che si accanisce in una società che - questo è il punto - alla morte non pensa più: si tratta di un tema che abbiamo rimosso, anche se riguarda, inesorabilmente, ognuno di noi».

La volontà della persona

Un tema - sostiene Cembrani - dove però le classificazioni e le semplificazioni non sono corrette: «A volte è difficile farlo capire ai giuristi, bisogna venire in corsia per capire quanto il tema è complicato. Si fa presto a parlare di “persone libere, capaci e consapevoli” ma la realtà è molto più complessa: non è sempre facile distinguere chi è “capace” da chi non lo è. E si tratta di situazioni che cambiano nel tempo. Ora sarà importante esaminare la pronuncia dei giudici della Consulta - conclude Cembrani - e poi anche i medici, non solo la politica, dovranno affrontare la questione della deontologia».













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