“RAUS”, fumetto sporco sulle tracce di Magris e Langer
Graphic Novel. Bruno Luverà, vicedirettore del Tg1 con un passato a Bolzano, racconta con i suoi disegni un viaggio in bicicletta lungo il Danubio con moglie e figlie. «Ho scelto il fumetto, perché fissa i ricordi sulla carta. Il frullatore digitale oggi cancella la memoria»
Bolzano. La carta resta, fissa i ricordi. Li ferma. Lo smartphone no. Immagazziniamo ogni giorno migliaia di immagini, video e testi digitali, ma, alla fine non resta niente. È partito da questa considerazione Bruno Luverà, per prendere in mano carta e matita e cominciare a disegnare fumetti dopo una vita dedicata al giornalismo tra radio, stampa e tv.
Luverà, vicedirettore del Tg1, autore della seguitissima rubrica di libri “Billy”, ha anche un pezzo di cuore bolzanino: per sei anni, dal 1989 al 1995, ha lavorato nella redazione del Mattino dell’Alto Adige. «Mi aveva chiamato Piero Agostini - ricorda - dopo avermi conosciuto a Radio Radicale».
È uscita da poco la sua graphic novel “Raus, fumetto sporco” (Comicout), che firma con lo pseudonimo di Skizzo. Una sorta di seconda identità per esplorare un registro narrativo diverso, che affonda le radici nel passato (la carta), mescolando il segno alla parola scritta. “Raus, fumetto sporco” è il racconto di una vacanza in bicicletta in Austria nel 2018 insieme alla moglie e alle figlie adolescenti. Un itinerario di quasi trecento chilometri. «Un viaggio lento - spiega -. L’occasione per riallacciare relazioni dentro e fuori la famiglia, e guardare con occhio curioso, ma anche critico, il mondo che si attraversa. Mentre pedalavo da Passau alle porte di Vienna, avevo questa grande paura che quello che stavamo vivendo finisse nel nulla per la mancanza della carta, di un supporto reale che ne conservasse il ricordo».
Non è paradossale nell’era dello smartphone?
Sono proprio i dispositivi digitali la causa numero uno di questa regressione della memoria. Non stampiamo più le foto, non giriamo più i filmini con la telecamera, ci siamo liberati anche delle diapositive. Usiamo solo il cellulare. Il telefonino immagazzina migliaia di scatti che durano lo spazio di un respiro.
Perse sull’iCloud...
Già, e lassù, sulla nuvola che non c’è, muoiono tritate dalla grande centrifuga digitale. Quante ne abbiamo che non guardiamo mai, trentamila, quarantamila? Nemmeno lo sappiamo. È l’oblio della memoria».
Il fumetto come estremo atto di resistenza alla dittatura digitale?
«Sì. Mi sono portato dietro il taccuino con la volontà di raccontare col disegno ogni tappa del viaggio. Una volta rientrati a Roma, ho cominciato a costruirci sopra una storia. Una delle mie preoccupazioni più forti è che, ormai, nel frullatore impazzito della società digitale, non sopravviva più nulla, se non pezzi di post, di tweet piuttosto che di Instagram o Tik Tok. Ma sono tutti frammenti che se provi a rimetterli insieme come un dannato puzzle, non ti daranno mai l’idea precisa della vita che hai vissuto. Navighiamo in un grande presente di auto-rappresentazione, che non crea memoria. Ma una famiglia, un paese, un mondo, senza memoria, non è da augurare a nessuno».
Il suo fumetto è fitto. Molto disegno, molto testo, molto dialogo.
Lo vedo come una rottura tra i generi. Una graphic novel è anche pagine scritte, letteratura a fumetti. Un omaggio romantico e convinto alla carta: la carta dei libri, la carta dei quadri, la carta dei giornali, la carta delle fotografie, dei disegni, degli schizzi... Poi c’è il piacere del libro. Ogni libro è sempre una scoperta. Crea la catena della memoria, mentre oggi lo Zeitgeist, lo Spirito del tempo, spinge nell’esatto contrario, e cioè alla cancellazione dei ricordi».
In Raus, lei si definisce un “accumulatore seriale” di libri. Gira i mercatini per “salvare” volumi ingialliti dalla campana della carta...
I libri sono carne e sangue. Sono persone. Sui banchi dei mercatini trovi pezzi di vita. Quando i figli e i nipoti svuotano le case, l’unico interesse è monetizzare. Ma la casa è la raccolta della vita di una persona, con oggetti che non sono “solo” cose, ma emozioni, sentimenti. Un quadro, una ceramica, i libri sono parte della storia di uomini e donne che non ci sono più.
Tracce da conservare con cura e rispetto.
Sì. Spesso, nei libri “usati”, trovi annotazioni, lettere, dediche, disegni scarabocchiati a margine. Strapparli dalla campana della carta, è il tentativo di preservare pezzi di memoria. Sopravvive, perché il segno rimane su un supporto che è la carta. Oggi, invece, la grande massa di “informazioni” che archiviamo sulla rete scorre via indifferente. Non resta niente.
Adelphi ha appena pubblicato una raccolta dei disegni di Kafka, scarabocchiati su pagine di giornale, cartoline, tovagliolini...
«Kafka voleva venissero distrutti, invece, grazie al cielo, il suo amico Max Brod li ha conservati, e oggi possiamo vederli. Quando un concetto non riusciva a spiegarlo bene con la parola, Kafka lo integrava con il disegno. Se coniughi segno e parola, vai più in profondità. La storia a fumetti diventa una sorta di flusso di coscienza, in cui tiri fuori una parte di te, ma anche parte del mondo che stai vivendo. E ne lasci traccia. Può farlo ognuno di noi: anche un “non disegnatore” di professione come me.
“Raus” è una espressione forte. In tedesco è un urlo di esclusione: fuori!, via da qui!
La storia che racconto ha diversi piani. Un Paese che io amo molto, l’Austria, vive di luci e di ombre. Il tarlo negativo della discriminazione sulla base della provenienza di chi si ha di fronte, è molto presente. Questo tema lo affronto con l’espediente narrativo del turista italiano che va a farsi una vacanza lungo il Danubio, ma che, come avrebbe detto Moravia, “appartenendo a un’altra tribù” irrita la tribù locale. “Raus” è l’espressione sintetica, anche brutale, di chi tende ad escludere. Dà bene l’idea del pericolo che corre un Paese, quando non si accettano i rischi e le opportunità di una società multiculturale. I recinti impoveriscono. Vanno abbattuti. Nel fumetto cerco di mettere in guardia dall’omogeneità culturale, dal pensiero unico che può essere politico, culturale, etnico».
Insomma, il lato oscuro piomba nella vacanza idilliaca di una famiglia felice in bicicletta...
«Sì, questa voglia di tenere alla larga lo “straniero”, l’ abbiamo percepita chiara, e più volte. Dico “abbiamo”, perché anche mia moglie e le mie figlie adolescenti irrompono nel fumetto, dicono la loro, partecipano alla costruzione della storia. Oltre alla natura bellissima, dell’Austria, che fu la patria di Kokoschka, Klimt, Zweig, vedono l’ombra nera che rischia di spegnere la luce».
Il vostro viaggio è del 2018 ma il fumetto racconta anche avvenimenti più recenti. Dentro, ad esempio, c’è il covid.
La lavorazione è durata quattro anni. Mi sono preso il tempo necessario. Durante il lockdown la storia si è trasformata ancora, sia nel contenuto sia nel segno. Il 70 per cento delle tavole originarie le ho cambiate. Ho tolto, aggiunto, limato, corretto.
Perché “fumetto sporco”?
Perché fatto in chiave underground da un disegnatore non di professione. Perché rompe le barriere tra parola e segno. L’aspetto “sporco” dà anche una connotazione di verità. L'estetismo può essere preso come sinonimo di grande finzione, mentre invece l’elemento ruvido, grezzo, aderisce di più alla realtà.
Nella storia, i riferimenti all’Alto Adige sono tanti. Uno su tutti, Alex Langer...
«Il nostro viaggio è stato ispirato al suo lentius, profundius e soavius... Più lenti, più profondi, più dolci. Riscoprire la dolcezza, la lentezza, la profondità della vita e delle cose. È uno degli aspetti forti dell’esperimento narrativo di “Raus”. Viviamo in un mondo che ci spinge a essere profondamente infelici. Siamo accelerati, non abbiamo più il controllo del tempo. Inseguiamo falsi miti, primi fra tutti carriera e visibilità. Non abbiamo il tempo di goderci le relazioni, la famiglia, i figli, l’amore. La vacanza in bicicletta mi ha dato la possibilità di scendere dal frullatore, per andare a scoprire le radici più naturali dello stare insieme. Quando David Sassoli (giornalista, presidente del Parlamento europeo, scomparso nel 2021, ndr) era ancora al Tg1, spuntava all’improvviso da dietro la scrivania, quasi ti abbracciava, e poi ti chiedeva: “Sei felice?».
Lei cosa rispondeva?
Niente. Ma quando ho iniziato a pensare al fumetto, quella domanda, me la sono rifatta.
La risposta?
La risposta è no. Come fai a essere felice, se corri dalla mattina alla sera? La vacanza in bici, almeno nella parentesi del viaggio, mi ha dato l’opportunità di conquistare un tempo e uno spazio che credevo perduti.
Lei ha vissuto e lavorato sei anni a Bolzano. Come ci vede dalla capitale?
L’Alto Adige rimane un progetto riuscito. È un modello di convivenza basato anche sulla convenienza e sui soldi, ma funziona.
E ha evitato un bagno di sangue...
Se guardiamo quello che accade nel resto del mondo, non c’è dubbio. Piero Agostini diceva che il conflitto etnico lo puoi governare, ma non lo puoi risolvere. E lo puoi governare bene con una autonomia efficace. In Alto Adige il conflitto non si è risolto con una grande comunità multietnica e multilinguistica, come auspicavano i Verdi. I gruppi linguistici hanno conservato una loro identità, ma non c’è più quella ostilità che poteva esserci all'inizio degli anni ’60.
Il primato della politica sulla pancia...
Un modello che a distanza di cinquant’anni dal “pacchetto” tiene ancora e viene indicato in tutto il mondo come un esempio, è un gran bel risultato. Ci sono state anche aperture notevoli.
Tipo?
Ai miei tempi, più di trent’anni fa, l’università sembrava un sogno irrealizzabile. La Svp la vedeva come il luogo della contaminazione tra i gruppi etnici. Oggi l’università c’è, e ha reso Bolzano una città molto più dinamica, reattiva, innovativa. Anche moderna. Sarà stata un’innovazione lenta, ma l’ateneo è la dimostrazione che alcuni argini sono stati rotti. E anche di un certo coraggio.
Insomma, meglio dell’Austria...
Direi di sì.
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