l’intervista

«Vi spiego perché avrei potuto essere io l’omicida di Rovereto»

Daniel Uche, 41 anni, nigeriano. Ex guerrigliero, ex clandestino, ex spacciatore. Salvato da padre Fabrizio Forti a Spini di Gardolo


Jacopo Strapparava


TRENTO. Abbiamo intervistato Daniel Uche, classe 1982, nato nello stato di Ebonyi, Nigeria. Arrivato in Italia dopo una vera odissea. Una storia che ha rischiato di somigliare molto a quella dell’assassino di Rovereto.

Daniel, come sei diventato un bambino soldato?

Per via di mio padre. Si chiamava Daniel, come me. Faceva il dirigente del Massob, il movimento che si batte per l'indipendenza del Biafra. Io ero il primogenito. Quando lui morì, gli anziani decisero che avrei dovuto prendere il suo posto.

Quanti anni avevi?

Undici. Ero alle elementari. Dissero che tutta l'istruzione di cui avevo bisogno per una carriera politica me l'avrebbe fornita il movimento. Finii in campo di addestramento, nella foresta. Lì ho imparato tutto. Come si scavano i tunnel. Come stare nascosto per scoprire i movimenti del nemico. Come usare un machete. Come sparare.

Quando hai sparato per la prima volta?

A tredici anni. Il nostro movimento ha basi segrete in tutte le città della Nigeria. Da lì scattavano i blitz. Contro i soldati dell'esercito regolare. Contro le forze dell'ordine. Contro i nostri oppositori politici.

Non avevi paura?

In qualche modo sì. Ma in quel che facevo ci credevo. Sapevo di fare qualcosa di giusto per la libertà del Biafra. Come se la libertà del Biafra fosse più importante della mia stessa vita. D'altronde, al campo, ce lo avevano detto: «Se muori lottando per la libertà del Biafra, il tuo spirito sarà in pace».

Hai mai ucciso qualcuno?

(Non fa una piega) Può darsi. Ma nel momento in cui spari, pensi solo a sparare. Poi viene a sapere che il tuo blitz ha causato un certo numero di morti. Ma non sai mai veramente chi ha ucciso chi.

Non provavi rimorso per quei morti ammazzati?

All'epoca no. Magari se finiva coinvolto qualche innocente. Ma con i nemici, mai. Se moriva un nemico, facevamo festa. Si è andati avanti così fino al 2002.

Cos'è successo nel 2002?

Il movimento decise di ripudiare la lotta armata e diventare un movimento pacifico, riconosciuto dall’Onu. Io non ci credevo. In Nigeria, se la polizia ti prende, sei finito, sei nelle loro mani, non è come qua, che se ti arrestano sei in mano alla legge. Con questa gente, pensavo, la pace è impossibile. Ormai avevo vent’anni. Guidai un ultimo blitz a Lagos, dieci morti, tanti feriti. Alcuni amici di mio padre mi dissero: «Non ti mettere contro gli anziani». Rimasi nascosto per un anno, per mi feci dare dei soldi e lasciai il Paese.

Volevi venire in Europa?

No, solo aspettare che le acque si calmassero. Nel deserto, i banditi ci hanno assalito, sono arrivato in Libia senza niente. Sono rimasto lì tre anni. Solo quando ho saputo che i miei compagni erano stati catturati, ho deciso di passare il mare.

Come fu la traversata?

Ho pagato duemila dollari, in totale. Una barca piccola. 27 persone. Il delirio. Quelli che piangono. Quelli che pregano. Quelli che urlano all'arrivo delle onde.

E tu?

Non sapevo leggere la bussola, ma quando vedevo che nessuno aveva il coraggio di farlo, l'ho fatto. Non sapevo governare la barca, ma quando vedevo che nessuno aveva il coraggio di farlo, l'ho fatto. Avevo già vissuto cose peggiori di quelle. E in quel momento per me non faceva troppa differenza vivere o morire.

Senti, è vero che in Africa si sogna l'Europa come una terra della cuccagna? Che gli africani sognano di venire qui perché credono di diventare ricchi e di girare in Ferrari?

Ogni storia è diversa. Molti vivono in condizioni talmente misere che vengono qui anche se sanno che guadagneranno pochissimo, e se lo fanno bastare. Altri sanno che il modo più facile per arricchirsi è con l'illegalità, e arrivano già con l'intenzione di delinquere. Per quel che mi riguarda, ero abbastanza sveglio da capire che per cento che partono, solo quattro o cinque hanno successo, gli altri finiscono male. Per di più, io economicamente stavo bene, i miei erano commercianti di beni alimentari. Da giovane, se sognavo di venire in Europa, era solo per andare in Vaticano a vedere il Papa o per andare a San Siro a vedere il Milan.

Come fu l'impatto con l'Italia?

Lampedusa. Poi a Crotone, dove mi han dato cinque giorni di tempo per lasciare il Paese. A Napoli. Poi Foggia, sono finito a raccogliere pomodori. Quindi Padova, dove ho iniziato a fare lo spacciatore. Ero specializzato in cocaina.

Facevi tanti soldi?

Sono arrivato a fare 3 mila euro al mese. Ma tutti soldi che non ti restano in tasca, dopo aver venduto la tua droga, devi comprarne di nuova, la polizia è attiva, non è detto che l'investimento vada a buon fine. Era una vita di merda. Bevevo. Fumavo. A un certo punto, smerciavo la roba in discoteca, restavo sveglio fino alle cinque del mattino.

Quando sei stato arrestato la prima volta?

Nel 2007. Espulso e rimpatriato. Servirono quattro pattuglie per caricarmi sul volo per Lagos. Mi fecero quattro iniezioni, mi legarono a un sedile. Se avessi potuto, avrei dato fuoco all'aereo. Mi credevano matto, fu la mia fortuna perché la polizia nigeriana evitò di controllarmi. «Questo, via dalle balle» devono aver pensato. Tempo pochi mesi, ero di nuovo in Italia.

Stai dicendo che di viaggi ne hai fatti due?

Di nuovo in Niger, di nuovo in Libia, di nuovo a Lampedusa. Arrivai a luglio. A novembre fui arrestato. Dieci mesi per clandestinità, legge Bossi-Fini. Di nuovo a Padova. Di nuovo arrestato, nel 2008, stavolta per droga. Entravo e uscivo di prigione. Ho girato le carceri di mezza Italia. Nel 2014 finii a Spini di Gardolo. E stato qui che ho conosciuto padre Fabrizio.

Padre Fabrizio Forti, frate cappuccino, storico cappellano del carcere trentino, morto nel 2016. Come vi siete incontrati?

In carcere ero chierichetto.

Guerrigliero, clandestino, spacciatore... e chierichetto. Sai che fa un po' un po' ridere?

(Scoppia a ridere anche lui)

Ma io sono così. Quando andavo a combattere, pregavo Dio che mi proteggesse. Quando spacciavo, uguale. E quando vedevo qualcuno che stava male per la droga, prima di darmela a gambe, chiamavo i soccorsi. Ma non vedevo che la mia vita era in contraddizione con quello in cui credevo. Padre Fabrizio prima mi ha parlato di sé. Poi ha cominciato la sua opera. All'inizio, opponevo una grande resistenza. Poi a poco a poco ho capito. Prima ho visto le storie dei tossicodipendenti. Poi ho accettato il fatto che la droga faceva male non solo a chi la consuma, ma anche a me che la vendevo.

Quando sei uscito di galera?

Dal 2016. Da allora, ho sempre rigato dritto. Ora lavoro al Centro di salute mentale, mi occupo di accogliere le persone in difficoltà. Ho preso un diploma alle serali, ora studio economia. Ho una fidanzata italiana. Faccio volontariato. Continuo a seguire la lotta per il Biafra. Sono anche arbitro di calcio.

Cosa hai pensato quando hai saputo di Rovereto?

All'inizio mi sono detto: che stronzo, quello. L'Italia ti ha dato tutto e tu ti comporti così? Diventi un ubriacone? Arrivi a uccidere una donna, a rovinare la tua vita, per cosa? Poi ho iniziato a ragionare. Il problema è dei migranti in generale. Queste persone non riescono a inserirsi nella cultura italiana. I casi sono sempre di più, sta diventando una reazione a catena. Da un lato. mi chiedo: dov'erano i servizi sociali? Dall’altro, mi rendo conto che serve un approccio nuovo. Queste persone devono essere seguite giorno per giorno, non serve a niente una visita ogni tanto. E poi: lo scarto culturale a volte è troppo grande. Io sono africano, capisco subito se un nero mi racconta balle. Se riga dritto o no. Un italiano lo capisce?

Non hai pensato che anche tu avresti potuto diventare come quell'uomo?

A Padova, una volta, ero braccato da un poliziotto in borghese. Mi rifugiai in un centro commerciale. Lì per lì, ho pensato: «Se si avvicina, lo prendo a pugni». Pensavo solo a scappare. Non capivo che rischiavo guai peggiori di quelli in cui ero già.

Dopo Rovereto i trentini diventeranno più razzisti?

Non mi piace la parola «razzista». Avranno più paura. La paura è dettata dall’ignoranza. Ma è normale: se io - grande grosso e nero - andassi in quel parco e chiedessi informazioni a una signora bianca, come reagirebbe?

Secondo me, un po' razzisti, gli italiani lo sono diventati.

Vuoi sapere una cosa? Ho amici anche nella Lega. Li sento sul palco, discorsi molto duri. Poi con me, ridono e scherzano senza problemi. Anzi. Mi dicono: «Daniel, ma perché tutti gli africani non sono come te?».













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