il reportage

Un inferno di freddo fra i rifiuti nella baraccopoli a pochi metri dalle Albere e dal Muse

Poche coperte e scatoloni sotto il ponte lungo l'Adige: ecco come sopravvivono i giovani pachistani richiedenti asilo senza lavoro

TRAGEDIA A BOLZANO. Ventenne senzatetto muore di freddo 


Andrea Tomasi


TRENTO. C'è un pezzo di umanità nascosta a pochi metri dal Muse e dagli appartamenti delle Albere. Niente di nuovo, in fondo. Niente che non si possa dimenticare una volta passate le feste natalizie o magari anche prima. Benvenuti a Trento! A pochi metri dal parco, poco lontano dal museo dove si celebra la scienza e la civiltà, c'è un pezzo di umanità.

È umanità maleodorante. La miseria puzza. Sa di sudore, di fiato pesante, di influenza non curata, di pantaloni di cotone troppo leggeri per dicembre, di jeans freddi che avvolgono corpi che si lavano poco. Sa di piedi scalzi dentro scarpe da ginnastica di gomma. Sa di mani sporche, perché qualsiasi cosa tocchi non hai che l'acqua del rivo che attraversa la baraccopoli per pulirti.

E poi ti asciughi alla bell'e meglio su quegli stessi jeans. Si attraversa il ponte pedonale in legno, frequentato da frotte di ciclisti e turisti pronti ad andare a visitare i mercatini. Si gira a sinistra e poi basta scendere. Qualche passo attento, facendo attenzione a dove si mettono i piedi e ci si trova in una specie di tunnel: un mondo di mezzo, una piccola baraccopoli, a metà strada tra la ricchezza della città (Trento smart city, Trento città alpina) e il Pakistan. Trento, città dal cuore grande, non sufficientemente grande. Non c'è spazio per Khan (22 anni), per Hamza Alì (19 anni) o per Ahmad (34 anni). Sono immigrati pachistani, richiedenti asilo. Dormono e vivono sotto a un ponte, a pochi passi dalla tangenziale, dall'autostrada, dal fiume Adige, dalla bella civiltà. Ieri siamo andati "a casa loro". Li abbiamo incontrati insieme ad altri tre.

Ma quanti sono i giovani stranieri che sopravvivono ai margini del capoluogo? «In questi giorni siamo una decina - spiega Hamza, che ci raggiunge in bici sul cui portapacchi tiene un litro di latte da portare agli amici - ma dipende dai giorni. A volte siamo venti. Fino a pochi giorni fa eravamo cinquanta». Tanti di loro sono stati trasferiti in Sardegna. Hanno ricevuto "l'invito a presentarsi" della questura e poco dopo sono saliti sui FlixBus che li hanno portati a Genova, poi su un traghetto e poi nell'entroterra sardo, come da disposizioni ministeriali. Sono giovani, poveri e arrabbiati. Vorrebbero una vita migliore. Non era questa l'Italia che avevano immaginato quando si sono messi in viaggio, chi un anno fa chi circa dieci mesi.Ahmad elenca i Paesi attraversati: Afghanistan, Iran, Iraq, Turchia, Grecia, Albania, Serbia, Montenegro, Croazia, Italia. Adesso sono a Trento e sperano in un futuro migliore.

Qui - chiediamo - cosa potete fare? Cosa volete fare? «Qualsiasi cosa. Possiamo lavorare in fabbrica. Possiamo lavorare in campagna. Qualsiasi cosa...».Da agosto la rotta balcanica è percorsa da migliaia di disperati alla ricerca di un posto degno dove crescere. «Ne arriveranno altri, anche se qui non si trova un posto dove lavorare e dove dormire». Hamza spiega che per loro non c'è posto nelle strutture di accoglienza di Trento. Ma come fate a mangiare? «Per fortuna c'è il Punto di Incontro (vedi articolo a fianco,ndr). Il fatto è che qui ci ammaliamo». Chiama l'amico Khan. «Mostragli le mani!» Khan, che non parla né italiano né inglese, esegue. Il ragazzo mostra mani pallide, la pelle secca e con qualche taglio qua e là. Di cosa si tratta? «Non lo sappiamo». Il prurito è forte, a tratti fortissimo. «Help us!» è una delle poche cose che riesce a dirci. Per il resto si affida a Hamza, il quale ci spiega che, per arrivare fino a Trento, ha speso qualcosa come diecimila euro. E i soldi da dove vengono? «Da lavoretti fatti qua e là, qualche risparmio. Per venire fin qui abbiamo venduto le nostre terre».

Mentre ci dice questo si gira verso quell'accampamento fatto di materassi di recupero, coperte, cartoni e poi ci guarda senza aggiungere altro, ma lo sguardo è eloquente. "Ecco dove ci ha portato il nostro viaggio". I ragazzi spiegano che le strutture di accoglienza in Trentino non sono sufficienti «e comunque per noi non c'è posto». Khan, Hamza e Ahmad scostano le coperte che fanno da "pareti" alle loro "baracche" appoggiate al muro di cemento. Il freddo e l'umidità si sentono a distanza. Solo a pensarci ti entrano nelle ossa. I tre pachistani accendono le torce dei loro cellulari (unico contatto con il mondo da cui provengono e una finestra su quell'occidente fatto di luci, promesse e carta patinata come quella delle Agenzie di promozione turistica) e così riescono ad illuminare l'interno. Vecchi materassi, coperte, qualche bottiglia di plastica. Le temperature vanno al di sotto dello zero, di giorno come di notte. Si dorme vestiti, ovviamente. Il "bagno" è il più lontano possibile da dove si dorme. Ahmad mostra una cascatella: «Siamo qui da cinque mesi. Quella è la doccia».













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