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Profugo espulso, tensione alla “Fersina”

L’uomo non vuole andarsene e scoppia la rabbia. Zeni: «Massimo rigore con chi non rispetta le regole». Tornano i carabinieri


di Luca Marognoli


TRENTO. Mangiano una pizza utilizzando come tavolo il cofano di un’auto, davanti al cancello della Protonterapia. A mezzogiorno passato tre dipendenti, due donne e un uomo, di una delle sei cooperative che operano all’interno della residenza Fersina, stazionano all’esterno, all’ombra esile di un paio di alberelli “con vista” sul vialetto che dalle ex caserme sbuca su via Al Desert. «I nostri superiori hanno deciso di non farci entrare», spiegano. Una misura di sicurezza precauzionale, per evitare che gli operatori, e le operatrici, possano rimanere coinvolti in qualche disordine. Anche la notte hanno preferito lasciarli fuori: c’è chi dice che dentro non sono mancati i momenti di tensione, come nella giornata di venerdì, quando le forze dell’ordine erano state chiamate ad intervenire per ben tre volte a causa di un profugo del Gambia furioso perché in via di espulsione - a causa delle sue intemperanze - dal progetto di accoglienza.

Profugo che tuttavia non si è allontanato spontaneamente e che continua a circolare nelle pertinenze della residenza. A un certo punto sbuca dal vialetto, affiancato da altri tre o quattro compagni, sembra scattare delle foto agli operatori, poi attraversa la strada e avvicina uno di loro, con fare polemico. Parla in inglese, dice che non ha paura di nessuno perché ha attraversato il Darfur, e protesta per le contestazioni che gli sono state rivolte. L’operatore non gli dà corda e dopo un po’ l’individuo si allontana e si dirige nuovamente verso il cortile dell’ex caserma. Trascorre un quarto d’ora e arriva un’auto civetta dei carabinieri, con a bordo alcuni militari in borghese, chiamati dagli stessi operatori, avvisati da un collega di un’altra cooperativa che all’interno era scoppiata un’altra piccola sommossa. I militari ascoltano quanto viene loro riferito e spiegano che il profugo “ribelle” è stato invitato ad allontanarsi entro la serata (nel pomeriggio verrà accompagnato in questura).

All’interno la situazione è di calma apparente. Nell’atrio delle ex caserme alcune persone attendono in fila probabilmente di accedere alla sala mensa, altre passeggiano all’esterno, nel cortile. Quando sanno di avere a che fare con un giornalista, fanno a gara per parlare, infervorati.

C’è lui, l’uomo del Gambia, che dice di non essere arrivato in Italia per sua scelta e contesta l’autorità del referente di una cooperativa (la stessa che ha deciso di tenere i suoi operatori all’esterno). Al suo fianco altri profughi, che perorano la sua causa con grande partecipazione. Si forma un gruppo di una ventina di persone, tutte schierate contro il referente. «Il problema qui è lui», dicono. «Ci toglie il pocket money (la somma per le piccole spese versata dallo Stato a ciascuno, ndr) accusandoci di cose che non abbiamo fatto». Ci portano sul lato dell’immobile: «Dice che la porta di vetro l’ha rotta lui (il gambiano, sembra di capire, ndr) ma è stato il vento...», incalza uno. Altri accennano, animatamente, ad altri episodi. Poi se la prendono con il cibo: «È cotto male», protestano. E insistono per accompagnarci nella zona per la prima accoglienza e mostrarci una stanza stipata di materassi, messi uno accanto all’altro, dove riposano alcune persone. Finché un operatore non interviene dicendoci che non abbiamo l’autorizzazione per restare nell’immobile e ci allontaniamo, non senza difficoltà, inseguiti da chi vorrebbe trattenerci.

Fuori, sulla strada, c’è il referente della coop “contestato”. Non può fare dichiarazioni, ma fa capire che di essere finito nel mirino perché sta a lui prendere le decisioni, anche quelle impopolari. È una persona pacata, che in passato aveva lavorato anche in centri anziani: l’opposto di quel “piccolo duce” che è stato dipinto.

È l’assessore Luca Zeni a prendere la sua difesa: «Avevamo chiesto l’espulsione di quel richiedente asilo perché è una persona aggressiva, ma venerdì era rientrato. Ora la questione è in mano alle forze dell’ordine. Noi facciamo del nostro meglio per gestire l’accoglienza, offrendo opportunità a chi vuole coglierle, ma con chi non rispetta le regole usiamo il massimo rigore, altrimenti la situazione diventa ingestibile. È in gioco la credibilità del sistema di accoglienza».

Alla residenza Fersina vive un gran numero di persone, alcune delle quali per più di un anno. C’è chi si comporta bene e chi meno. Non si può parlare di “profughi” al plurale, dicendo che “fanno casino”, altrimenti si fa il gioco di chi attacca per partito preso il sistema dell’accoglienza e strumentalizza certi episodi per fini politici.

Basta guardarsi attorno per capirlo. Mentre il gruppo di contestatori strepitava nel piazzale, altri sei o sette richiedenti asilo salivano placidamente a bordo di due auto, diretti a Brentonico, per un torneo di calcio all’insegna della fratellanza. Altri uscivano in bicicletta verso la città. Altri ancora si intrattenevano con le operatrici all’esterno, chiedendo loro perché non entravano come sempre. Uno di loro, pachistano, spiegava di essere un bravo portiere di calcio. Sarebbe andato anche lui a giocare ma oggi non c’era più posto. Per venire qui, fino a Trento, ha attraversato mezzo mondo. Su un braccio ha una serie di lunghe cicatrici da arma da taglio.













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