dopo l'incendio

Baita Monzoni è rinata: per tetto un cielo di stelle

Il rifugio era andato a fuoco a maggio ma il gestore “Nello” non ha mollato e grazie all’aiuto di amici e albergatori ha riaperto tra ombrelloni e botti di legno


Luca Pianesi


TRENTO. Glielo ripetono tutti: «Non mollare Nello». Glielo ripetono gli amici della Val di Fassa che in questi mesi non l’hanno abbandonato e gli hanno regalato posate, ombrelloni, pentole per ripartire. Glielo ripetono amici e clienti da tutta Italia tramite Facebook che tra un «da Nello non si molla mai» e un «grande Nello, mai arrendersi» lo sostengono e lo spingono ad andare avanti. E soprattutto glielo ripetono le tante persone che passano di lì, in Val Monzoni, e a fianco alle rovine di quella che era una delle baite più amate della zona scorgono sorpresi una sorta di accampamento delimitato da fascine e botti di legno, con tanto di copertura fatta di ombrelloni e teli di plastica.

In mezzo ci sono panche e tavoloni, nell’aria si respira un buon profumo di braciole e all’ingresso una scritta bianca, dipinta su un pezzo di legno, recita: «Anche se la baita del Nello s’è bruciata un piatto di polenta è sempre preparata», che spiega tutto. Baita Monzoni, infatti, dopo il furioso incendio che l’ha distrutta nella notte a cavallo del 25 maggio è rinata. Ok non avrà il tetto, non avrà le pareti, non avrà una vera cucina «ma ha una splendida griglia», spiega ridendo il vulcanico Nereo “Nello” Defrancesco 64enne che da 34 anni gestiva il rifugio, vero punto di riferimento per escursionisti e abitanti della zona.

«Dall’incendio s’è salvata praticamente solo la griglia – racconta – e per me è stato come un segno del cielo. Della serie: “Nello non mollare continua a cucinare”. E allora mi sono rimboccato le maniche e grazie alla solidarietà di tantissime persone siamo riusciti a mettere in piedi quella che ho ribattezzato “Baita Borela”. La borela, in dialetto, sono i pezzi di legno e lo spazio dove accogliamo visitatori ed escursionisti è proprio delimitato dalla legna che avremmo dovuto usare per il fuoco. Tavoli, panche, ombrelloni, posate e pentole, invece, ci sono state date da alberghi, aziende e abitanti della valle. E’ stata una corsa alla solidarietà bellissima. Le fiamme, infatti, s’erano mangiate tutto».

Esattamente 34 anni di ricordi che, appesi alle pareti in legno della struttura, rendevano unica Baita Monzoni: c’era di tutto, da un kalashnikov etiope, a svariati cinturoni di cartucce, coltelli tribali e vecchi sci per la montagna, bandiere del Regno d'Italia e cappelli da alpino. Una baita che era nata prima come rifugio per i pastori e poi per gli escursionisti e i turisti della zona, realizzata con le travi usate durante la prima guerra mondiale. «Una di queste travi s’è salvata e l’abbiamo messa al centro del nuovo rifugio - prosegue Nello - come a dire “baita Monzoni è ancora qui”. Poi chiaramente i disagi a stare a cielo aperto non sono pochi. Quando piove i nostri ombrelloni hanno circa sette minuti di autonomia e quindi al sesto minuto d’acqua carichiamo tutti nella nostra macchina e li portiamo a valle. E anche per pulire le stoviglie e le tovaglie, ogni giorno, dobbiamo caricarle in macchina, portarcele a casa, lavarle e riportarle su al mattino con la carne e la polenta».

Una faticaccia, non c’è dubbio, ma, a scanso di equivoci, “il Nello non molla” e non mollerà in futuro: «Io ero solo il gestore della baita - conclude - ma appena l’assicurazione ci risarcirà dei danni vorrei provare a investire tutto per ricomprarmi il rudere e ricostruirlo, così com’era prima»













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