Memoria

"Quei 45 milioni di antifascisti", Gianni Oliva sulle ipocrisie del dopoguerra

Lo storico dichiara: «Ci siamo raccontati di averla vinta la guerra e così non abbiamo mai fatto i conti con il nostro passato. La Resistenza fu decisiva, ma la maggioranza degli italiani stette a guardare»


Paolo Campostrini


Bolzano. Per andare al dunque, a volte, serve andare da Churchill. Col sarcasmo di chi era nato e abitava a Blenheim palace disse di noi: «In Italia sino al 25 luglio c'erano 45 milioni di fascisti, dal giorno dopo 45 milioni di antifascisti. Ma non mi risulta che l'Italia abbia 90 milioni di abitanti». Meno enfaticamente Mario Tobino prese la sua Viareggio di quel giorno, come paradigma. L'autore, straordinario, de "Il clandestino", racconta di quella estate in Versilia: fino al 25 erano tutti fascisti, in spiaggia tra gli ombrelloni; il 26 luglio, tra quegli stessi ombrelloni tutti antifascisti. "Che ce ne fossero così tanti, di antifascisti, a Viareggio nessuno se ne era accorto...". Come, dice Gianni Oliva, nessuno era parso ricordare, il 25 aprile del '45, che l'Italia aveva perso la guerra. «E ancora adesso sfido qualcuno a trovare sui libri delle scuole questa frase netta: l'Italia ha perduto. No: si fa finta che l'abbia vinta». È dentro questa rimozione collettiva che si annidano, secondo lo storico, docente e studioso del Novecento, la difficoltà della politica di avere letture comuni sulle nostre vicende, in particolare tra il '40, l'entrata in guerra, e la sua fine. E sul ventennio. «Si è data la colpa di tutto a Mussolini, ucciso a Dongo ed esposto a piazzale Loreto, e poi al re, esiliato sol referendum del 2 giugno. Ma tutti gli altri? I milioni e milioni di funzionari, docenti universitari, intellettuali, giornalisti, capitani d'industria, magistrati». Uno per i molti: Gaetano Azzariti. Durante il fascismo presiede il "tribunale della razza", le famigerate leggi antiebraiche messe in pratica; nel dopoguerra è presidente della Corte costituzionale, l'organo di garanzia della Repubblica democratica. "Togliatti, Nenni, De Gasperi non ebbero nulla da dire", aggiunge Oliva. Che ha da poco pubblicato un libro urticante: "45 milioni di antifascisti" (Mondadori". Sottotitolo: il voltafaccia di una nazione che non ha fatto i conti con il ventennio).

Perché non li ha fatti?

"Per comodità. Veniva più facile. Meno comodo ammettere di aver perduto la guerra. Bastava guardare, anche a scuola, la cartina geografica prima e dopo il '45. Ancor meno comodo dire che i colpevoli erano milioni, non solo il duce e il re".

Per quale ragione questa difficoltà a pronunciare la parola sconfitta?

"Metteva al centro la responsabilità di una nazione intera".

E invece?

"Dire che la guerra era finita con una vittoria, cioè il 25 aprile di festa, risultava più liberatorio. Ma ha impedito di fare i conti".

Con chi?

"Ad esempio con una intera classe dirigente. Milioni e milioni di impiegati e funzionari, di medici e di magistrati".

Altri esempi clamorosi?

"Prendiamo Ciro Verdiani. È l'uomo più vicino a Buffarini Guidi, il sottosegretario agli interni della Rsi. È anche responsabile dell'Ovra, la polizia segreta in Dalmazia. Ebbene Ferruccio Parri, il leader del Cnl, gli affida l'ispettorato antimafia. Con loro, migliaia di italiani passarono da una parte all'altra così. Ma furono i partiti antifascisti a permetterglielo".

E chi disse no?

"Dissero no, per dirne una, 13 professori universitari. Oggi, giustamente, sono ricordati. Ma i docenti negli atenei allora erano 1848. E sì che non rischiavano certo la fucilazione. Avrebbero dovuto cercarsi un altro lavoro".

Nel libro spiega che questa transizione senza sensi i colpa, facendo passare una sconfitta per una vittoria, pensando di chiudere i conti li ha invece tenuti aperti fino ad oggi. È così?

"Quando si "transita" da opposti così opposti, come una dittatura e una democrazia, senza guardarsi in faccia, senza domandarsi di chi furono le colpe, i conti restano aperti. Faccio un altro esempio: le foibe".

Eppure sono state finalmente fatte riaffiorare come evento collettivo no?

"Ma sulla spinta della destra. Il Msi ne ha sempre parlato. Dico, il Msi: cioè il partito erede dei responsabili di quelle vicende, dell'occupazione, della guerra, dell'odio scatenato. E invece avrebbero dovuto farlo gli antifascisti, i partiti eredi del Cln".

E perché non lo facero?

"Si doveva ammettere la ferita. La perdita delle terre adriatiche, in sostanza un pezzo storico del Paese strappato via. Delle responsabilità titine e del Pci. Ma la democrazia non voleva, non doveva parlarne per la ragione che avrebbe dovuto parlare di sconfitta di una nazione, non solo di Mussolini".

Nel libro parla molto di responsabilità collettive.

"È vero. Guardiamo le piazze italiane del 10 giugno del '40. Quando Mussolini chiama alla guerra si sentono boati di giubilo. E non solo in piazza Venezia, in ogni piazza italiana, da Trento a Palermo. Quelle stesse masse si sono depurate di ogni complicità solo girando la pagina del calendario. Penso invece alla Germania".

In che senso?

"I tedeschi hanno la certezza di aver perduto, tutti, la guerra. Ma è dalla consapevolezza della sconfitta, senza alibi, che hanno fatto sul serio i conti col passato".

Oltre a Mussolini e al re chi riteniamo plasticamente gli altri colpevoli?

"Ad esempio i militi di Salò. Solo che loro, nella gran parte, erano diciottenni indottrinati, gli altri no, erano tutti adulti".

Ma la Resistenza?

"Una pagina decisiva nella nostra storia. Da lì venne il riscatto. Ma, una volta di più, servono i numeri. Furono una minoranza i resistenti. Nei primi mesi addirittura quasi tutti e solo reparti militari. Ma anche nel '44 e nei mesi successivi, la nettissima maggioranza degli italiani stette a guardare. E la politica seguì questo corso".

Tutta?

"Poche eccezioni. Ricordo solo Pertini. Quando Marcello Guida, divenuto questore di Milano, giunse alle cerimonie per la strage di piazza Fontana, incontrò e salutò tutte la autorità presenti. L'unico a tenere platealmente la sua mano dietro la schiena fu Sandro Pertini. Ricordava che proprio Guida era stato il direttore del carcere di Ventotene dove lui, giovane antifascista poi presidente della Repubblica, venne richiuso da Mussolini".

Vede conseguenze di questa mancata gestione storica della nostra ultima guerra anche nel dibattito di oggi?

"Molte. Io mi sono schierato col Pd. Mi sento sinceramente democratico. Ma non ho condiviso la scelta dei dem di impostare tutta la campagna elettorale sull'antifascismo".

Perché?

"Mio padre poteva dirsi antifascista. Io non sono antifascista, sono democratico. E in quanto tale lontano anni luce da quell'esperienza. Ogni democratico è antifascista, ho dubbi che proprio tutti, ma tutti quelli che si dichiarano oggi antifascisti siano realmente democratici. Come vede, siamo un Paese che ancora si divide sulle parole. Sui fatti, invece, ha fatto pochi conti. Probabilmente per questo resta diviso e prosegue una guerra civile a parole dopo che quella vera, quella sanguinosa, è finita. Pur senza vittoria".













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