Una domenica al parco Stazione: cous cous e umanità per smontare il ghetto
Papadam Diop, operaio Iveco, itaiano di origine sengalese, porta cibo ai giovani africani che vivono nel ghetto dei giardini. "Solo ascoltando le loro storie, si possono abbattere i pregiudizi. Ma loro devono comportarsi in modo irreprensibile"
Bolzano. Domenica, mezzogiorno, fa un freddo cane. Parco Stazione è più vuoto del solito. Ci sono solo loro. I neri. Trenta, quaranta. Il più giovane ha 19 anni, il più vecchio 35. Sparsi qua e là. Nigeriani gambiani, senegalesi, ivoriani. Si nascondono dietro gli alberi, appiattiti sulle vetrine del bar Miami. Papa Dame Diop arriva sulla sua Citroën grigia. Scarica pignatte fumanti. Cous cous, carne di manzo in umido, riso e pesce alla senegalese. Succhi di frutta e acqua. Appoggia tutto su una panchina vicino al giardino del Laurin. Papa Dame conosce bene la loro storia. «Perché è uguale alla mia. Anch’io sono “nero”. Anch’io sono stato clandestino. Anch’io ho dormito per strada. Oggi sono cittadino italiano. Ho una casa, un lavoro e una famiglia. Vorrei che coltivassero una speranza, ma vedo solo tanta disperazione. Pensavano che la parte più dura fosse la traversata sul barcone...». E invece è adesso, in Italia.
Gaetano Senatore, lavora con Diop all’Iveco. È arrivato due anni fa a Bolzano dalla Campania. Lo aiuta con piatti e bicchieri. «Papa Dame e gli altri operai senegalesi sono gli unici che mi hanno fatto sentire a casa - dice -. Lui mi aiuta sempre. E adesso io ricambio».
È venuta a dare una mano anche Monica Rodriguez Natteri. È peruviana, è stata appena eletta nella Consulta migranti: «Volevo vedere, capire, anche per parlarne poi con la giunta comunale».
Papadam Diop chiama i ragazzi che guardano da lontano. «Venite, che qui c’è un piatto caldo». Lo dice in almeno quattro lingue: italiano, francese, inglese, e wolof, la sua lingua, il senegalese. Si avvicinano piano. La moglie Ndella, che ha cucinato tutto, riempie e porge i piatti. Basta un gesto per rompere il muro. Papa Dame Diop ha avuto un idea semplice e coraggiosa: toglierli dall’isolamento, strapparli da questo dannato parco che è diventato un ghetto. Una prigione senza sbarre. Perché se è vero che noi abbiamo paura di loro, loro ne hanno altrettanta di noi. Forse di più. «I bolzanini stanno alla larga - dice Diop -. Li capisco, ma la realtà è più complessa. È vero, c’è chi spaccia, ma ce ne sono tanti che sono costretti a vivere qui perché non sanno dove andare. Non hanno documenti né lavoro. A molti non viene più rinnovato il permesso di soggiorno per motivi umanitari, gli Sprar vengono smantellati, e così tornano nell’oscurità». Quasi tutti vivono al parco giorno e notte, h24. Julius Eyameh, 30 anni, nigeriano, si è laureato in ingegneria elettronica al Politecnico. «La mia vita è tutta qui dentro», dice in inglese, e indica lo zaino blu sulle spalle.
Il parco è la loro casa, ci dormono, ci mangiano, si lavano alla fontana delle rane. Aspettano che cambi qualcosa: i documenti, la “grazia” di un lavoro, la fuga in Francia o Germania. Pochi vogliono restare in Italia. I commercianti si lamentano perché «pisciano, si ubriacano e lasciano uno schifo». Diop se ne assume la responsabilità, cosciente che il razzismo è una bestia immonda che sta risollevando la testa, ma anche “che dobbiamo rigare dritto o il colore della nostra pelle diventa un detonatore micidiale”.
«Ragazzi - dice distribuendo il riso e le patatine -, noi siamo neri, dobbiamo rispettare le regole due volte più di un bianco. Abbiamo gli occhi puntati addosso. Dobbiamo comportarci non bene, benissimo. Prima i doveri, solo dopo possiamo rivendicare dei diritti». Quindi. «Se dovete fare la pipì andate in un bar, non usate i giardini. In Africa mica la facciamo in strada, giusto? Secondo: lasciate tutto pulito. Buttate i rifiuti nei cestini. Terzo: se qualcuno beve, spaccia o crea problemi, isolatelo». L’idea di Papa Dame è proprio questa: venire al parco ogni domenica alle 12.30. Parlare, mangiare insieme il cous cous di Ndella, ascoltare le loro storie. E invitare i bolzanini ad esserci. Perché qui, di storie, ce ne sono tante. E loro hanno voglia di raccontartele. E vogliono che tu sappia che chiedono solo una cosa: lavoro, lavoro, e ancora lavoro.
Camara Sunkary, 24 anni, gambiano, è arrivato 4 anni fa: «So fare tutto: carpentiere, muratore, ferraiolo. Anche il pescatore, ma qui non c’è il mare...». Frequenta un corso di formazione per operaio edile, dorme al centro di via Comini. Omario Keita, 35 anni, da sei in Italia: «Faccio le stagioni, raccolgo mele e uva. Ma gli altri mesi non trovo niente. Un contadino di Laives mi fa dormire in cascina, non è onorevole. Non voglio la carità».
Perché si scappa dall’Africa? Omoezi è arrivata due anni fa. Dorme in un centro Caritas per donne, ma di giorno sta qui, al parco, perché è l’unico posto dove non si sente giudicata. «Il problema non è il cibo - dice- . Non morivamo di fame. Il problema è la mancanza di libertà, autonomia, diritti, futuro. Vivere senza aver paura che qualcuno ti ammazzi per la tua religione o come la pensi. Sono salita sul barcone perché volevo costruire in Europa un destino diverso per i miei tre figli, che ho lasciato in Nigeria. Mi sono resa conto che era solo un sogno. Ho il permesso scaduto, mi sento un fantasma». Di storie così, ieri, ne abbiamo sentite decine. Diop questa settimana incontrerà il sindaco: «La cosa ideale - dice - sarebbe trovare dei locali per spostarli dal parco in un posto dove, almeno di giorno, possano stare al riparo, tranquilli. E non lasciarsi vivere qui».
L’appuntamento, intanto, è per domenica prossima. Al parco Stazione. E se qualcuno ha un lavoro da offrire, si faccia avanti.