la storia

Rudi, il legionario bolzanino ucciso dai partigiani viet

L’odissea di Rodolfo Altadonna: l’infanzia in Germania nella Hitlerjugend, la Legione Straniera e la guerra d’Indocina. Ammazzato nella battaglia di Dien Bien Phu


di Luca Fregona


BOLZANO. Al cimitero militare di San Giacomo c’è una croce di ferro col suo nome: Rodolfo Altadonna. Ma là sotto, nella terra, lui non c’è. Il suo corpo è stato gettato in una fossa a 10 mila chilometri da qui, a Dien Bien Phu, in Indocina, il 21 aprile del 1954. Ucciso dai guerriglieri viet nell’assalto all’ultimo bastione del colonialismo francese. Una battaglia entrata nei libri di storia. La croce l’hanno fatta mettere i genitori alla fine degli anni Cinquanta. Un posto per ricordarlo. Rodolfo Altadonna era uno dei 5 mila legionari italiani arruolati più o meno a forza nel dopoguerra, e uno dei centinaia spediti nella giungla a combattere contro l’esercito dello Zio Ho. La sua è una storia incredibile.

Nel 1939, quando ha 10 anni, il padre, pur essendo italiani, opta inspiegabilmente per la Germania nazista. Nel 1940 la famiglia Altadonna si trasferisce ad Augsburg in Baviera. Rudi, che non sa una parola di tedesco, deve trasformarsi nel giro di pochi mesi in un “vero germanico”. La famiglia cambia cognome e diventa Springer, lui viene inquadrato nella Hitlerjugend, il padre lo obbliga a parlare solo la lingua di Goethe. Durante i bombardamenti degli alleati svolge funzioni di portaordini. Vive per due anni rannicchiato come un topo nelle trincee e tra le macerie. La loro casa viene rasa al suolo. Con gli americani alle porte, i nazisti vanno a cercarlo per spedirlo in strada a dare l’ultimo assalto all’arma bianca, un suicidio, ma i genitori riescono a nasconderlo. Con la fine della guerra, gli Springer/Altadonna vengono cacciati dalla Germania. Mentre il resto della famiglia è rinchiuso in un campo per ri-optanti a Innsbruck, lui e il padre rientrano clandestinamente in Italia, a Bolzano. Rudi fa il lattoniere, ma è insofferente alla durezza del papà.

Quando gli “Springer”, nel 1950, riottengono finalmente la cittadinanza italiana e tornano ad essere “Altadonna”, se ne va di casa. Lavora come spazzacamino. Nel 1951 entra nei paracadutisti del Reggimento Nembo, di stanza a Viterbo. È molto attaccato al fratello Willy, più piccolo e più timido, che negli anni bui della Germania e del rientro, ha sempre protetto. Anche dal padre. Gli manda lettere e foto. Willy le conserva ancora oggi in una teca. Foto dei lanci, dell’addestramento, degli aerei militari. Tra i parà, Rudi si sente finalmente a casa. Ha 20 anni ma la delusione di un reduce. Ha visto la guerra, il fascismo e il nazismo. Gli hanno cambiato nome e identità. È stato italiano, poi tedesco, poi di nuovo italiano. Si sente un estraneo ovunque. Un irrequieto che non sa cosa vuole. Forse avventura. Forse una nuova opportunità. Forse il riscatto, lui, ex nazista bambino, tra gli sconfitti della guerra. «Nel 1951 - ricorda Willy - dopo l’ennesima lite con papà, sono scappato di casa anch’io. Ho fatto l’autostop e sono arrivato fino a Viterbo. L’unico che mi poteva aiutare era lui: Rudi». Rudi lo accoglie, lo abbraccia, ottiene il permesso di farlo dormire in caserma. Ma poi gli fa la ramanzina: «Fai il bravo Willy. Basto io in famiglia a portare guai. Torna su e chiedi scusa». Rudi fa una colletta coi compagni, paga il biglietto e lo mette sul primo treno.

Finita la naia, Rudi  torna a Bolzano. Trova lavoro come autista della Forst. Si iscrive al Gruppo paracadutisti dell’aeroporto di San Giacomo. Gli piace andare in moto, uscire con le ragazze. Un po’ guascone, uno brillante. Uno che piace.  Tutto sembra a posto, ma lui no. Non è in linea. Non è in bolla. Qualcosa gli rode dentro. La mattina del 2 aprile 1953 passa a trovare i suoi. Sa che il padre non c’è. È insolitamente taciturno Rudi. Via con la testa. «Prima di andarsene ha stretto mia madre e le ha dato un bacio», ricorda Willy. Una bacio lungo sulla guancia. D’addio. Poi dà una pedata al fratellino. Il suo modo di dirgli “ti voglio bene”. «Ehi, mi raccomando, stai vicino a mamma». È l’ultima volta che lo vedono. Scompare nel nulla. Pochi mesi dopo, in agosto, arriva una lettera dalla Francia. È Rudi. Poche righe in tedesco: «Mi sono arruolato nella Legione straniera a Nizza. Poi sono stato 15 giorni a Marsiglia dove mi hanno fatto tutte le visite. Dopo ci hanno imbarcati per Orano in Algeria e da lì ci hanno portato a Sidi-Bel-Abbes, dove c’è il centro di addestramento. Caro Willy, ho firmato per 5 anni. Spero che tutto vada bene. D’altra parte papà ha sempre voluto che io me ne andassi e così ho deciso. Ora sono nelle mani del destino».

Dopo la guerra, sono molti gli italiani (e tra questi anche diversi altoatesini, leggi la loro storia) che finiscono nella legione. Ci sono ex fascisti ricercati ma anche partigiani delusi o in cerca di adrenalina. C’è chi viene arruolato a forza (i clandestini presi in Francia senza documenti), e chi ci finisce per scappare dall’inferno del lavoro nelle miniere del Belgio. È probabile che Rudi sia stato già contattato più volte. Ancora nel 1946, quando gli Altadonna erano fermi in Tirolo, area d’occupazione francese, in attesa di entrare in Italia da ri-optanti. «Ma anche a Bolzano - ricorda Willy - c’erano degli arruolatori che cercavano di abbindolare i giovani».

L'addestramento nella base di Sidi-Bel-Abbes è durissimo, il caldo insopportabile. I superiori sono tutti ex SS fuori di testa. Le reclute vengono accolte a calci e pugni. Umiliate ad ogni occasione. Devono marciare a 35 gradi per 20 chilometri con mitra, fucile, giberna e lo zaino pieno di munizioni. Stare per ore fermi nella palude con l’acqua alla gola. Fare da servi agli “anziani”. Se mostri paura ti picchiano. Se ti ribelli ti picchiano. Se scoprono che vuoi disertare ti picchiano. Se sei in ritardo ti picchiano. Se non ti rifai il letto, giù calci. Rudi capisce di aver fatto un errore madornale. Scrive a Willy: «È molto più dura che sotto i parà, ma ormai è così. Dovrò stare qui i prossimi due mesi. Non hai idea di quanto sia difficile. Gli istruttori sono quasi tutti tedeschi, ma gli ordini sono in francese. Dobbiamo imparare in fretta...». O sono botte. La ferma dura 5 anni. È destinato a combattere in Indocina, dove il Vietminh, l’esercito di Ho Chi Min, sta facendo a pezzi i francesi. I francesi mandano avanti la Legione. Carne da macello. La percentuale di caduti è altissima. Specialmente tra i paracadutisti, l’80% muore nei primi giorni sotto il tiro da terra.

Rudi viene spedito in Marocco nella caserma di Bossuet per un ulteriore addestramento. Scrive sempre nel suo tedesco ricco di italianismi, ma aggiunge anche termini in francese. Entrati a memoria dal lessico di caserma. In novembre viene aggregato al 4. Reggimento Fanteria. Scrive a Willy il 29 novembre 1953: «Ho fatto una sciocchezza. Se potessi, tornerei a casa sulle ginocchia. Mi aspetta una manovra di 5 giorni nel deserto, dovremo procuraci acqua e cibo da soli». E ancora: «È colpa solo mia se sono finito qui. Dì ai nostri genitori che non hanno nessuna responsabilità. Nessuno mi ha costretto. Caro Willy non ti puoi immaginare quanto sia dura. L’altro giorno per una marcia ci hanno caricati come muli (in italiano, ndr). Siamo vicini a Natale e la nostalgia di casa è ancora più forte». Se con il fratello si confida, alla madre fa trasparire il meno possibile. «Per Natale ho formato un piccolo gruppo vocale - la tranquillizza -. Cantiamo le canzoni italiane, come “Vola colomba”, o “Piccola Pastorella”».

Le lettere che arrivano in Italia sono cariche di angoscia e rimpianto. Scrive ai genitori: «Vi penso notte e giorno. Tra 5 anni quando tornerò, cambierò vita. Vi ho sempre amato anche se non ve l’ho mai dimostrato e se ero sempre arrabbiato». Il 15 gennaio 1954 è di nuovo a Orano in attesa della partenza della nave per Saigon. Ringrazia la madre per una cartolina con le parole di “Stille Nacht”. «Mi hai riempito il cuore e fatto sentire meno solo. Hanno radunato qualche migliaio di legionari, quelli che partono per l’Indocina. Non ti preoccupare per me, ho commesso un errore imperdonabile, ma la colpa è solo mia. Oggi mi hanno dato l’equipaggiamento. Mamma non aver paura, andrà tutto bene. Vedrai, tornerò a casa. Tra pochi giorni sarò in mare. Ti scrivo io da lì».

La lettera a Willy è premonitrice. Quasi un testamento: «Willy, sto per imbarcarmi. Quando la riceverai, sarò già partito, e tutto sarà nelle mani del destino. Willy, ho una cosa da chiederti: adesso sei il fratello maggiore e sei anche diventato un uomo. Mi devi promettere che farai di tutto per rassicurare mamma e papà. Devi dire loro che io tornerò e tutto andrà bene. Ti raccomando anche di seguire la nostra sorellina Nori, che ormai è una signorina e ha bisogno di te. E di aiutare nostra madre nelle difficoltà. Me lo devi promettere Willy». Il 30 gennaio manda l’ultima lettera con una foto della nave su cui è imbarcato, il “Pasteur”. «Cari genitori, domani arriviamo nel porto di Aden (in Yemen, ndr) e vi spedirò questa lettera. Abbiamo attraversato il canale di Suez. Per Saigon ci vorranno ancora due settimane». Cosa succede dopo, è solo una supposizione. Rudi avrà scritto ancora, ma in Italia non arriva niente. Silenzio totale. Un giorno dagli Altadonna si presenta un tizio. Dice che ha conosciuto Rudi e che con 30 mila lire e un vestito nuovo lo può far tornare in Italia. Uno sciacallo. Il padre lo sbatte fuori a calci. Poi ancora silenzio. Fino a quando, un anno dopo, nel 1955, bussa alla porta di casa un messo comunale. Porta un dispaccio del Ministero della guerra francese. «Il legionario Rodolfo Altadonna - si legge -, nato a Bolzano il 18/07/1929 è caduto in combattimento il 21 aprile 1954 a Dien Bien Phu. È stato seppellito sul posto».

Dien Bien Phu, l’ultima roccaforte, dove la Francia ha praticamente perso l’Indocina. Migliaia di legionari rinchiusi nella città, martellati per 56 giorni giorno e notte dall’artiglieria viet. Tremila morti tra i francesi, 5 mila tra i viet. Diecimila francesi (moltissimi Kepì blanc) prigionieri. Il prologo di quello che succederà dieci anni più tardi con gli americani. Rudi era stato paracadutato su Dien Bin Phu di rincalzo ai legionari asserragliati in otto ridotte disperate a cui avevano dato nomi di donne: Anne Marie, Beatrice, Isabelle, Dominique... Fa parte di quei 4 mila soldati lanciati dopo il 14 marzo ’54 nel tentativo disperato di tenere la fortezza.

Non è chiaro se sia stato ucciso mentre toccava terra o durante un tentativo di resistenza nella postazione Isabelle. Se sia stata una pallottola, un colpo di mortaio o di machete. O una canna di bambù piena di esplosivo piazzata sotto le trincee francesi da una delle gallerie scavate dai viet. Come è morto Rudi, gli Altadonna non lo sapranno mai. «Devono essere stati due mesi orribili per lui», dice Willi con gli occhi, 64 anni dopo, ancora velati dalle lacrime.

La notizia della morte corre veloce per le strade di Bolzano. «Caduto a Dien Bien Phu un ex autista della “Forst”», titolano Alto Adige e Dolomiten. Piangono le ragazze delle vasche in via Museo. Piangono gli amici delle scorrazzate in moto. Piangono gli autisti della Forst e le zie Ida, Rosina e Vittoria, che Rudi si premurava di salutare sempre nelle sue lettere. Piange il padre, forse dannandosi per essere stato tanto duro. Mamma Maria muore l’anno dopo, uccisa dal dolore. A soli 50 anni. Qualche anno fa Willy chiede ad un amico in vacanza in Vietnam di portagli un barattolo di terra da Dien Bien Phu. Fa riaprire la tomba dei suoi e ne mette metà in una cassetta. «Così Rudi riposa accanto a loro», dice oggi. L’altra metà la mette in una bottiglia con l’immagine di Sant’Antonio, a cui il fratello era devoto. Scava una buca, e la infila sotto la croce al cimitero militare. «Dove resterà per sempre, anche quando io non ci sarò più». Se vi capita di passare e incrociate una foto di un ragazzo che guarda lontano, fermatevi. È Rodolfo “Rudi” Altadonna morto a 25 anni a 10 mila chilometri da casa. Per una guerra non sua.

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