Papadam Diop: «Bolzano addio, c’è troppo razzismo. Vado via per i miei figli»
L’attivista italo-senegalese si trasferisce in Francia: «Ho il cuore spezzato ma qui non hanno futuro»
Questa è la storia di una sconfitta. La sconfitta di una città, la nostra. Papadam Diop ha deciso di andarsene. La moglie Ndella e i due figli di 8 e 6 anni sono già in Francia, a Grenoble, lui li raggiungerà definitivamente alla fine di giugno. «Ho il cuore spezzato - dice con gli occhi umidi - ma non avevo altra via d’uscita. Lo faccio per loro. Per i miei bambini».
Diop è un personaggio pubblico a Bolzano, molto impegnato sul fronte sociale, molto amato. Operaio Iveco, primo delegato africano (è di origine senegalese) dello stabilimento, motore di innumerevoli iniziative per i migranti ma anche nei quartieri. Tra i primi in Italia, ha portato a Bolzano il “plogging”, la corsa di gruppo per ripulire le strade dai rifiuti, ha aperto una palestra popolare di karate per i ragazzi di Don Bosco, Europa e Novacella, ha organizzato sessioni di ginnastica e jogging nei parchi. «La mia missione è sempre stata lo sport sociale, lo sport per tutti». E poi serate per far conoscere la cucina e la cultura dei paesi africani, sempre nell’ottica delle condivisione. Ha fatto molto per Bolzano. Ma non è bastato.
Il razzismo
Diop non ci gira intorno. Il problema è uno solo e si chiama: razzismo. «Sono stufo di sentirmi sempre un corpo estraneo. Stufo che ogni volta che vado in Comune o in banca mi chiedano se ho il permesso di soggiorno. Vivo in Italia da vent’anni, a Bolzano da dieci, ho la cittadinanza italiana. Sono nauseato della gente che dice “non affitto agli stranieri” e di quelli che speculano affittando un posto letto in una topaia per 500 euro al mese. Sono cose che toccano nel profondo, ledono la dignità, l’anima, l’identità di una persona. La politica si riempie la bocca di belle parole, ma poi non interviene duramente contro il razzismo. Chi discrimina deve essere punito, stop, anche così si cambia la mentalità. Invece, resta tutto fermo. Il colore della pelle rimane un muro invalicabile. E io non lo sopporto più. Non voglio che i miei figli crescano in un posto dove si sentono infelici. Il mio dovere di genitore è di proteggerli. Essere neri in Italia, a Bolzano, nell’anno 2022, segna ancora il destino e l’accettazione sociale».
Uno come noi
«Mohamed, il mio figlio più grande, otto anni, nato qui, cresciuto qui, si è sempre sentito diverso, respinto. Quando sul bus, vedeva una persona di pelle nera, mi diceva “papà, papà, guarda, uno come noi”. Uno come noi, capito? Quasi rasserenato. Come dire: non siamo gli unici. Quando lo portavo a scuola, mi stava attaccato fino all’ultimo secondo, entrava solo al tocco della campanella».
Per Mohamed, la scuola era un luogo ostile: si sentiva continuamente osservato, bullizzato, rifiutato. Zero amicizie, zero inviti a casa, zero compleanni, zero condivisione.
«Da febbraio lui e il fratellino sono a Grenoble, e le cose sono cambiate da così a così. La mattina non vede l’ora di trovarsi in classe, ha già un sacco di amici. Perché la Francia è un paese multietnico, multiculturale, integrato. Ti valutano per quello che sai fare, e non da dove vieni, se porti il velo, o sei nero. In Italia non funziona così. In Francia i miei figli hanno trovato una cosa che qui non potevano avere: il rispetto. E questo viene prima di ogni altra valutazione».
Anche Ndella, la moglie di Papadam, un diploma di scuola alberghiera e una lunga esperienza di sala a Dakar, a Bolzano non riusciva a trovare lavoro.
«Non si sentiva realizzata. È ancora più frustrante quando capisci che le cose girano male perché sei africana, e non per quello che vali. A Grenoble nel giro di pochi giorni è stata assunta con un contratto a tempo indeterminato. Il lavoro è dignità».
Il razzismo burocratico
Papadam è arrivato in Europa nel 2000, prima in Francia, poi a Bergamo. «Ho fatto molti lavori fino a quando, nel 2007, dopo un corso da tornitore, sono stato preso in Iveco. Nel 2012 sono stato trasferito a Bolzano, nello stabilimento di via Volta. Ora ho trovato un accordo con l’azienda, ho già delle proposte a Grenoble e a Rennes. In Francia non devo penare per far valere i titoli di studio conseguiti in Senegal. Vengono riconosciuti automaticamente». Stessa cosa per il karate. Papadam è stato nella rappresentativa senegalese, per tre volte campione nazionale, è maestro abilitato. «Ma in Italia sono passati vent’anni prima che i titoli mi venissero riconosciuti. Queste ottuse lungaggini burocratiche non smettono mai di farti sentire uno straniero».
Acra Yoga
Anche per questo ha sempre cercato di aiutare i ragazzi sbarcati dai barconi e poi catapultati quassù. Prima del Covid, nel momento di massima criticità per l’arrivo dei cosiddetti “clandestini” a Parco stazione, è stato lui, insieme alla moglie Ndella, a portar loro da mangiare, a cercare un letto caldo, un posto dove farsi la doccia. L’assessore Andriollo glielo proibì per questioni “igienico sanitarie”. «La cosa mi faceva ridere perché erano le stesse cose che mettevo nel piatto ai miei figli». Andriollo ebbe poi l’idea di mandare lì in mezzo una cooperativa che proponeva concertini di pianoforte, corsi di Acra Yoga ed educazione cinofila. Un fallimento totale.
Ci voleva invece uno come Papadam per tentare un dialogo con i giovani imprigionati nel perimetro del parco.
Uno che aveva vissuto le loro stesse esperienze, che parlava la stessa lingua, che sapeva da dove venivano. «I bolzanini li vedevano come una massa di criminali e spacciatori, io, invece, per quello che erano (e sono) veramente: ragazzi soli e spaventati. Avevano bisogno di cibo, di un tetto, di formazione e avviamento al lavoro, di qualcuno che li rincuorasse». Il corso di Acra yoga cadde nel dimenticatoio. Papadam invece continuò ad aiutarli. Non poteva portar loro da mangiare al parco? Da allora lui li invita ogni domenica a casa sua, in viale Europa. Raccoglie sacchi a pelo, vestiti, scarpe. In questi anni, Diop non le ha mai mandate a dire. Sempre pronto a pungolare il Comune, a chiedere assistenza, a denunciare gli sgomberi delle baraccopoli lungo l’Isarco o sotto il viadotto di viale Trento. Pochi mesi fa ha salvato un ragazzo che stava morendo di polmonite.
«Lo sgombero - spiega - è una violenza inammissibile. Anche se di cartone, per quei ragazzi è una casa. Risbatterli in strada come dei cani randagi è quanto di più disumano si possa fare».
Spesso si è scontrato con gli assessori e con il sindaco Caramaschi. «Ma sempre nel massimo rispetto. Capisco i limiti di chi si trova ad agire nelle istituzioni, ma io non potevo restare in silenzio. Con le assessore Lorenzini e Rabini ho lavorato molto bene».
L’ultimo plogging
Ancora per questa settimana, l’ultima a Bolzano, Diop andrà la sera a distribuire cibo e coperte lungo gli argini dei fiumi insieme a Carla Leverato. «Ecco - dice con una punta di amarezza - mi si spezza il cuore al pensiero di lasciare persone come Carla, ho tanti amici e amiche che mi hanno aiutato in tutti i progetti. Così come dovrò trovare le parole per dire ai bambini della scuola di karate che il prossimo autunno non ci sarò più». La palestra popolare aperta un anno fa dopo aver ottenuto finalmente tutti i timbri e i permessi attesi da una vita, dove l’iscrizione la pagava solo chi poteva permetterselo e il kimono bianco “abbatteva ogni distinzione di classe e provenienza”. «Mi mancheranno moltissimo, ma cercherò di indirizzarli in palestre e da maestri che hanno la mia stessa filosofia».
Sabato prossimo, 27 maggio, condurrà l’ultimo plogging (partenza alle 9.45 da piazza dell'Università). Saranno in molti a salutarlo.
Papadam ora abbassa lo sguardo, si asciuga le lacrime col dorso della mano. «Sarà un distacco difficile - dice amaro -, ma non più duro di quando, da ragazzo, ho salutato i miei genitori e i miei fratelli e ho lasciato l’Africa».
Resta la sconfitta di una città corrosa da sempre dagli odi contrapposti. Italiani contro tedeschi. Tedeschi contro italiani. Noi contro gli stranieri. Papadam se ne va. Noi restiamo: più poveri, più ottusi, più soli.