Nel ventre dell’Hotel Alpi, il gigante che sta per crollare
Il cantiere Waltherpark a Bolzano. Demolita l’autostazione, tra pochi giorni tocca all’albergo bonificato dall’amianto presente in grandi quantità. Nell’edificio vuoto tra le sale sventrate e gli ultimi resti di una storia che si chiude per sempre. E 20 mila metri cubi di macerie da smaltire
Bolzano. Sembra Beirut negli anni Ottanta ma senza la guerra. Le ruspe danno gli ultimi colpi al vecchio ingresso di via Perathoner. L’insegna «AUTOSTAZIONE - AUTOBAHNHOF» non c’è più. Benko l’ha fatta smontare e regalata al Comune. Verrà messa da qualche parte, a futura memoria di un passato ormai seppellito sotto le rovine. La benna squarta la biglietteria e i gabinetti. Poi tocca a «SCHARF GRILL - PIZZA & KEBAB». Le pensiline sono una distesa di macerie che i camion portano via a ritmo continuo: 4.750 metri cubi di cemento armato, mattoni, ferro e pietra. Dalla terra, come radici recise, spuntano i tondini deformati dai bulldozer. Erano l’anima dei piloni ormai polverizzati. Il cantiere Waltherpark viaggia in modalità “treno giapponese”. Una macchina lanciata che non ammette ritardi. Il tempo è denaro, qui si investono milioni a palate. E non solo di Benko. Un cannone tipo sparaneve innaffia i detriti impedendo alla polvere di alzarsi. Impressionante. Il pulviscolo resta schiacciato a terra. Dall’altra parte della palizzata, in via Alto Adige, non ne arriva un granello che sia uno. «Il brevetto è di un’azienda bolzanina», spiega Alexander Theiner, l'ingegnere che segue il cantiere per Signa.
Il prossimo passo. Qui tutti hanno ormai la testa sul prossimo passo: la demolizione dell’Hotel Alpi. Ventimila metri cubi. Quattro volte l’autostazione. L’albergo è stato svuotato. Da giorni una squadra di operai specializzati sta togliendo l’amianto. Un lavoro rognoso. Incappucciati nelle tute bianche, con mascherina sul viso, scarnificano pareti e tubazioni. Questo “vecchio” albergo, costruito nel 1957, è pieno zeppo di amianto. L’Asl è rimasta due giorni a fare analisi, test e contro analisi. «Tutto a posto - dice Michael Mühlberger, capo della comunicazione di Signa -. È stato rimosso a regola d’arte da una ditta certificata e autorizzata allo smaltimento. Le cose le facciamo bene. Per la salute di chi abita qua intorno, e anche per la nostra, visto che ci lavoriamo». Di amianto, a pacchi, ce ne sarà da togliere anche nel condominio Garibaldi, il prossimo a venire giù entro dicembre. E altro ancora quando toccherà nel 2020 all’ex Camera di commercio lì accanto.
Un gigante vuoto. Abramo Beretta fa strada nel ventre dell’alpi. E' il capocantiere. Un bergamasco silenzioso, asciutto e duro come la pietra. Dirige operai e gruisti come un’orchestra. Gli basta uno sguardo, un cenno. Questo è un posto pericoloso. Non sono ammesse distrazioni. Al piano terra la vetrata decò della toilette delle signore è ancora lì, appena scheggiata. Con le rondini nere, i fiori smaltati di lilla e vaniglia. Non c’è niente di più “vuoto” di un bagno abbandonato: la vasca arrugginita, le piastrelle salmone, i rubinetti ossidati, i tubi staccati come flebo spompate. E' strano ed emozionante allo stesso tempo, salire le scale di questo gigante legato a terra come gulliver. Scricchiola come una nave in disarmo. Oscilla come un castello di carta. Le stanze spoglie, la sala delle colazioni sventrata. cataste di tubi e legno. Grovigli di cavi, ferro e acciaio. Finestre smontate. Piastrelle, specchi, comodini, sedie, letti sfondati, macchine da scrivere. Una cassaforte alta due metri. la tappezzeria scollata. L’intonaco scrostato. Il gigante sta per morire.
I fantasmi dell’Alpi. Eppure, qualcosa pulsa ancora qui dentro. È come in Shining. Passi tra i corridoi e senti le voci. Lì c’era la colonna di Lucio Fontana, che oggi è alla Fondazione Prada di Milano. Una “ceramica policroma” venduta all’asta da Christie’s nel 2011 per 630 mila euro, senza che Bolzano si fosse mai resa conto di avere avuto per mezzo secolo un capolavoro sotto il naso. Lì accanto c’era il bancone bar “modernista” in legno massiccio, circondato da poltrone e sofà in velluto blu e scarlatto. Lì è dove allestivano le mostre d’arte contemporanea. In quell’angolo c’era il piano bar col maestro Cassetti... È lo spirito del luogo. I fantasmi che oppongono resistenza. Ecco l’ingresso dove ti accoglieva il maitre di sala. Dopo una parentisi “tirolese” negli anni Settanta che l’aveva trasformato in una orribile stube, il ristorante dell’hotel - fino alla chiusura nel dicembre 2012 - era famoso per il pesce. L’ultimo gestore, Francesco D’Onforio, aveva infilato due cuochi in cucina: un calabrese e un pugliese. Spaghetti alle vongole, al cacio e pepe, linguine al palombo, il baccalà, il mitico risotto alla rana pescatrice.
Miss Upim. Quante gente è passata da qui? Tanta. Commercianti in città per la Fiera, attori dello Stabile, politici della prima repubblica, i poliziotti di via Marconi in pausa pranzo accanto a mezzo consiglio provinciale. Le riunioni del Circolo cittadino negli anni ’50. L’elezione di “Miss Upim” nei Sessanta. Banchetti di nozze, battesimi, pranzi di lavoro, cene di Natale. Un posto molto “italiano”. E poi le comitive dei mercatini, i giapponesi ipnotizzati da Ötzi. Ultimissimi i rifugiati arrivati sui barconi, ospitati ad albergo chiuso dal 2015 al 2017. Questo raccontano le macerie.
Tutto quello che valeva qualcosa è già stato portato via: il bar è finito nel garage di un collezionista, così come i preziosi controsoffitti in legno “damascato”. C’è la fila per accaparrarsi l’insegna storica al neon. «Ma è già stata “aggiudicata”», scherza l'ingegnere.
Bolzanistan. Dal tetto il colpo d’occhio è impressionante. Una spianata grigiastra di detriti, circondata da palazzi disabitati. I prossimi a cadere. Lo sguardo si perde verso le colline di Rencio. Il capocantiere Beretta lo ha già visto mille volte, ma ogni volta si stupisce. «È un lavoro grosso - sussurra - c’è ancora tanto da fare». L'ingegnere annuisce. Mühlberger fa sì con la testa. «Cambierà tutto - dice- , qui nasce la Bolzano di domani». E come dargli torto? Se la “Bolzano di domani” sarà buona o cattiva, bella o brutta, esclusiva o inclusiva, lo vedremo. Non è solo una questione di soldi, di affari. Qui, insieme all’Areale, si gioca quello che saremo nei prossimi 50 anni.
La città è un organismo vivente. Cambia. Alcune cose le cancella, altre le conserva, altre le rigenera. A volte muore, ma poi resuscita, portandosi dietro quello che è stato. Prendiamo questa zona, il “quadrante” tra piazza Verdi, via Garibaldi e la Stazione. Prima della guerra, qui si fermavano circhi, luna park, i baracconi d'avanspettacolo. Ci battevano le prostitute, c’era pure un bordello. Era il “quartiere del divertimento”. Dove oggi c’è parco Stazione, si ergeva il meraviglioso Teatro Verdi. Poco più in là, il Circolo ufficiali. Il 2 settembre 1943, a mezzogiorno, 25 bombardieri americani ne fanno terra bruciata per colpire la ferrovia. Fino al rione Loreto, oltre il ponte (oggi viale Trento), non si salva niente. Muoiono 18 persone. Il “quadrante” è riemerso dalla guerra brutto e spoglio. Un parcheggio malfamato, una piazza che è rimasta di puttane e papponi, una via di alcolisti, poi di eroinomani e di spaccio, poi di migranti disperati. Oggi di tutte queste cose insieme. Benzina a costo zero per la propaganda delle destre: “discarica sociale”, “fogna del centro storico”, “Bolzanistan”.
Non è bastata - a invertire la rotta - la costruzione dell’Alpi nel ’57, disegnato dal genio di Armando Ronca su incarico dell’imprenditore Leone Collini. Non è bastato, nel 1999, il nuovo Teatro Comunale stile soviet di Zanuso. Non bastano - oggi - il parco dei Cappuccini, il Trevi con la biblioteca e le mostre, le riqualificazioni. Il cinema all’aperto. Il mercatino degli artigiani davanti alla Stazione. Ogni tentativo di recupero è andato a vuoto. Come se questo posto fosse maledetto. Ma ogni città ha un luogo dove rinchiude i suoi figli più fragili, quelli che non stanno al passo. E se Benko farà “pulizia”, questo posto si sposterà solo da un’altra parte.