L’ambasciatore giapponese di Merano e il suo autista italiano
La storia. Il 25 giugno 1943, alla vigilia dell’implosione del fascismo, il capitano di vascello Toyo Mitsunobu, contrammiraglio dell’imperatore Hirohito, addetto navale dell’ambasciata di Roma, sposta la sede diplomatica dalla capitale a Merano, città ospedale che gli alleati non possono bombardare. Il suo autista fidato è l’autiere Amos De Marchi che, un anno dopo, lo accompagnerà all’appuntamento con la morte: una pallottola in testa dai partigiani.
BOLZANO. «Ho una memoria di ferro. Avevo appena cinque, sei anni ma ricordo tutto. Tutto. È chiuso a chiave qui dentro». Luciano De Marchi porta l’indice destro alla tempia. «La testa è la mia cassaforte». Luciano De Marchi ha 85 anni. È nato a Merano il 30 aprile 1939. Sfila da una busta un plico alto così di foto in bianco e nero. L’indice, adesso, sciabola da un’immagine all’altra. «Questo era l’ambasciatore giapponese. E questo mio padre davanti alla Chrysler Crown Imperial. L’auto di servizio. Se la immagina? Una Chrysler del genere, nera, tirata a lucido, girare per le strade di Merano nel 1943 con un ammiraglio giapponese a bordo e le bandierine del Sol Levante... Io c’ero. Io ho visto. Lasci che le racconti tutta la storia».
Prego De Marchi...
«I miei sono venuti a Merano negli anni ’30 da Montagnana in provincia di Padova . Mio padre Amos era del 1913, un bravissimo autista di vetture e camion, e anche meccanico. Quando scoppia la guerra, viene richiamato negli autieri. Nel ’41 lo spediscono sul fronte russo di supporto alla logistica della Wehrmacht». Foto: un convoglio di bisarche cariche di camion e blindati. Sul retro c’è scritto “Bahnhof Proletarskaya”.
Proletarskaya Ulitsa, 140 chilometri a ovest di Stalingrado. Novembre 1942. Amos De Marchi fa parte di un gruppo di autieri italiani che hanno l’incarico di portare rifornimenti e legna alla 6ª Armata del generale von Paulus assediata dall’Armata rossa nella sacca. «Per farla breve: mio padre non riesce a tornare indietro. Resta bloccato a Stalingrado. Un mese prima della caduta della disfatta tedesca si ammala. Lo caricano su uno degli ultimi treni ospedale in partenza verso occidente e si salva. Dopo qualche mese rientra a Merano. Era in condizioni pietose, rimase a disposizione come autista dell’Esercito. Di Stalingrado gli restava una croce di guerra conferita dalla Wehrmacht. Eccola qui (la estrae da una busta grigia insieme alle mostrine, ndr). Della Russia parlava poco. Ogni tanto un flash. Mi disse che fu terribile. I compagni morivano come mosche di pallottole, freddo, fame e malattie. Per sopravvivere, catturavano le pantegane, le spellavano e le mettevano a bollire...».
Tornato a casa, l’autiere Amos De Marchi è convinto che la guerra dura per lui sia finita. Ma non ha fatto i conti con il motore inarrestabile della storia.
L’ambasciatore
Il 25 giugno 1943, alla vigilia dell’implosione del fascismo, il capitano di vascello Toyo Mitsunobu, contrammiraglio dell’imperatore Hirohito, addetto navale dell’ambasciata di Roma, temendo l’invasione americana del centro-sud Italia, sposta la sede diplomatica dalla capitale a Merano, città ospedale che gli alleati non possono bombardare.
«I giapponesi si sistemarono alla Pensione Burgund, in riva al Passirio. Mitsunobu aveva capito che il regime stava crollando. Voleva mettere al sicuro la missione nel nord. I fatti gli diedero ragione». Il 10 luglio i fucilieri del Grande Uno Rosso sbarcano in Sicilia. L’8 settembre 1943 l’Italia firma l’armistizio. Il giorno dopo, 9 settembre, i tedeschi hanno già occupato l’Alto Adige e scorrazzano per Merano. «Eravamo Alpenvorland. Terzo Reich. Mio padre venne distaccato come autista personale di Mitsunobu». Gli autisti al servizio del notabile erano tre. «Mio padre era il capo, quello di cui Mitsunobu di fidava».
Toyo Mitsunobu è un pezzo da novanta: 46 anni, una carriera militare e diplomatica inarrestabile, veterano della guerra contro i cinesi, esperto di armamenti, abile tessitore di affari, sostenitore al limite del fanatismo dell’alleanza con Hitler. Un samurai con la svastica incisa sulla pelle. Ma anche dotato di un fiuto politico non comune. Spedito a Roma nel 1940, ha una pessima opinione degli italiani che ritiene un popolo di furbi e debosciati, assolutamente incapace di vincere la guerra (un suo rapporto segreto impietoso nei confronti dell’esercito di Mussolini verrà pubblicato negli anni ’50 dal Cln come prova della debolezza militare del regime, ndr).
Arrivato a Merano, l’ammiraglio gira molto nel nord del paese, si occupa delle commesse belliche affidate dal Giappone a industrie italiane. Di armi segrete (sommergibili e siluri) in grado di ribaltare il destino della guerra nel Pacifico.
Missioni condotte nel più assoluto riserbo. Quando si sposta, Toyo Mitsunobu si fida solo di Amos De Luca. «Mitsunobu - prosegue Luciano - abitava con la famiglia in una villa di Maia Bassa. Gli addetti all’ambasciata alloggiavano alla Pensione Rosa. Facevano una vita ritirata. Dei fantasmi. Io, ad esempio, non ho mai giocato con le figlie dell’ammiraglio, che più o meno avevano la mia età. Non mi era permesso avvicinarle».
Altra foto: Amos De Marchi appoggiato alla Chrysler. Sul retro si legge: “Salò, villa del ministro, Sua Eccellenza Mussolini”. «Mitsunobu gli presentò il duce. Mio padre era fascista come lo erano tutti. Aveva la tessera per campare, ma tutto quello che desiderava era una vita tranquilla con sua moglie e suo figlio».
L’agguato
Nel maggio del 1944 - mentre i marine americani puntano verso Roma -, Amos De Luca, al volante di una Fiat 1500 con targa diplomatica, accompagna l’ammiraglio a Montecatini Terme.
Nella sede della missione navale tedesca si tiene una conferenza segreta sui nuovi armamenti. L’8 giugno ripartono per Merano: sulla statale dell’Abetone, vicino a Pianosinatico in provincia di Pistoia, De Luca fa appena in tempo a schiacciare il pedale del freno. Bande chiodate su tutta la carreggiata. Dalla boscaglia spunta un gruppo di uomini armati: partigiani. Uccidono Mitsunobu con un colpo alla testa ancora dentro la vettura. Il suo aiutante, il capitano di fregata Dengo Yamanaka, riesce ad aprire la portiera, buttarsi nella scarpata e fuggire con un paio di proiettili in corpo. I partigiani recuperano borse e documenti.
Amos De Marchi alza le mani. «Sono solo l’autista». Viene risparmiato, fatto prigioniero e portato in montagna.
L’agguato era preparato: Mitsunobu era in cima alla lista degli obiettivi da eliminare stilata dai servizi alleati. Amos De Marchi viene spostato da un rifugio all’altro per settimane sugli Appennini. Quando i partigiani allentano la guardia, trova l’occasione giusta per fuggire. «Sapevamo che l’ambasciatore era stato ucciso - racconta il figlio -. Il corpo, recuperato dai tedeschi, era stato portato a Merano. Un paio di giorni dopo l’imboscata, si celebrarono i funerali in cimitero, ma di mio papà non avevamo notizie». Una mattina di luglio inoltrato bussano alla porta. «Apro e vedo quest’uomo sporco, con i capelli fino alle spalle e la barba incolta e lunga. Una specie di barbone. Quest’uomo mi fa: “Sai chi sono?”. E io: “No”. E lui: “Tuo padre”. Lo abbracciai forte e chiamai la mamma. Noi tre eravamo di nuovo insieme. Ma non era finita...».
Castel Labers
Ottobre 1944: Amos De Marchi riceve l’ordine di mettersi a disposizione del comando delle SS all’Hotel Park di Maia Alta. In novembre viene assegnato al maggiore Friedrich Schwend, l’ufficiale a capo dell’Operazione Bernhard. Schwend ha trasformato Castel Labers in una fortezza inespugnabile sorvegliata dalla Gestapo. Ai suoi ordini ha un’intera compagnia di Teste di morto. «Ci siamo dovuti trasferire dalla nostra casa di via Carducci in una dependance all’interno del perimetro del castello - ricorda Luciano - Vivevamo reclusi. Proibito uscire. Tutto era avvolto da un clima di tetra segretezza».
Operazione Bernhard
L’Operazione Bernhard: milioni di sterline false da smerciare in tutto il mondo per far crollare la moneta inglese. Banconote quasi impossibili da distinguere dalle originali. Così perfette da ingannare le banche svizzere. Castel Labers è il punto principale di smistamento di una montagna di denaro. Schwend è il cervello di una colossale opera di sabotaggio. Organizza una rete di agenti, affaristi, speculatori, sparsa in tutta Europa con il compito di acquistare beni di valore riciclando il denaro falso. Un’operazione sporca vietata dal diritto internazionale, ideata nel 1939 da Reinhard Heydrich, una delle menti criminali del nazismo.
«Mio padre - prosegue Luciano De Marchi - aveva il compito di andare in Austria, a Salisburgo, a prelevare con il camion e la scorta i forzieri con i rotoli di banconote. I rotoli arrivavano a Labers dove le banconote venivano tagliate in pezzi da 5, 10, 20 e 50 pound. Le sterline false venivano poi consegnate in pacchi confezionati ad agenti in borghese, ma anche a scorte armate che le recapitavano ai quattro angoli d’Europa». Quei soldi vengono persino utilizzati per pagare i costi della liberazione di Mussolini sul Gran Sasso. Le sterline false arrivano dappertutto: Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Turchia. Schwend trattiene per sé una percentuale del denaro ripulito, accantonando una fortuna enorme mentre gli sgherri della SS e della Sod razziano le fortune degli ebrei meranesi caricati sui vagoni per Auschwitz. «Schwend era una specie di signorotto, girava su un cavallo bianco. Lui era la legge. Ricordo un tunnel, una galleria a Labers dove i nazisti tenevano qualcosa di molto prezioso. All’ingresso avevano piazzato una batteria antiaerea».
L’omicidio
A Castel Labers passano spie, trafficanti all’ingrasso sulla guerra, avventurieri spregiudicati. Come Teofilo Camber, un giovane fiumano, che Schwend aveva conosciuto in Istria, e che si crede più furbo del capitano delle SS. Camber, dopo aver fatto da galoppino per Schwend, si impadronisce di un’auto carica di sterline false e scappa verso Trento. I tedeschi lo riacciuffano e lo riportano a Merano. Schwend organizza una piccola tradotta per condurlo negli uffici di Bolzano della Gestapo. Arrivati a Gargazzone, Schwend ferma il corteo di auto con una scusa. Fa scendere Camber, estrae la pistola mitragliatrice e lo uccide con una raffica. Il corpo viene seppellito in gran segreto nel cimitero di Lana. Camber sapeva troppo dei suoi affari illeciti alle spalle del Führer. Schwend, per giustificarsi, dirà che Camber aveva tentato di fuggire. Una tesi smontata nel processo per omicidio in contumacia celebrato in Italia nel dopoguerra, che si concluse con una condanna a 21 anni.
«Di quel periodo a Castel Labers - dice Luciano De Marchi - ho ricordi contrastanti. Ero un bambino che vedeva le cose senza capire esattamente cosa stesse accadendo. Schwend mi diceva: “Piccolo Luciano, farò di te un vero nazista”. Diceva che un giorno mi avrebbe mandato all’Hotel Paradiso in Val Martello, a “scuola” dalla Gestapo (i tedeschi avevano trasformato l’albergo progettato da Giò Ponti in una centrale di spionaggio, ndr). A Labers mi sentivo un po’ in prigione ma avevamo tanto da mangiare, cosa non scontata prima, cioccolata, mortadella, roba buona. E poi potevo giocare con la figlia di Schwend. Ricordo il Natale del 1944, un albero immenso nel salone del castello. Tutto decorato e con i pacchi sotto. Schwend regalò a mio padre l’orologio delle SS (lo estrae dalla borsa, ndr) ma senza le rune intarsiate nella cassa. Se le avesse varrebbe una fortuna».
Quando ai primi di maggio del ’45 arrivano gli americani, i nazisti scappano, rinchiudono i De Marchi e il resto del personale nel castello. «Con noi c’era un fabbro che riuscì a fare saltare la cancellata».
Qualche giorno dopo, Schwend viene preso dagli americani in Tirolo. Per salvarsi la pelle fa ritrovare oro, banconote e svela la rete dell’Operazione Bernhard. Collabora con i servizi americani. Nel 1947 con un lasciapassare della Croce Rossa, rilasciato sotto falso nome, sbarca in Perù con la famiglia e una valigia zeppa di soldi. Apre un ristorante, continua a trafficare in affari illeciti, viene coinvolto in un altro omicidio, ospita e nasconde il criminale nazista Klaus Barbie. Nel 1979 l’estradizione in Germania. «Tempo dopo a Merano incontrai le sue figlie - racconta Luciano -. Mi sorrisero ma senza fermarsi».
E Amos? «Mio padre tornò a guidare i camion. Aveva una piccola ditta, ma era dura. Abbiamo patito la fame. Frequentavo le Iti ma non ho potuto terminare gli studi perché non c’erano più soldi». Luciano va a lavorare presto nell’Italia del boom. Meccanico, operaio, persino il barista a Torino. Poi l’assunzione alla Montecatini di Bolzano. Nel 1982 si licenzia e fa fortuna vendendo ascensori. «4.720 in 25 anni: credo sia una specie di record». Una vita piena. Sempre con quell'immagine indelebile dell’ambasciatore del Giappone sulla Chrysler tirata a lucido con papà al volante.
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