Io, il bimbo senza gambe: mutilato dalla guerra e salvato da Don Gnocchi
Edoardo Feltrin aveva 4 anni quando, nel 1944, venne investito dall’esplosione di una bomba farfalla rimasta silente nel cortile dell’asilo a Caneva, vicino a Pordenone. «Nel 1946 sono stato accolto nel collegio per i “mutilatini”. I nostri genitori si vergognavano di noi, lui ci ha ridato dignità e speranza»
22 marzo 1944, ore 6.33 del mattino, asilo parrocchiale San Tommaso di Caneva, Sacile, Pordenone. Un bambino di 4 anni, Edoardo Feltrin, varca per primo il cancello. Il fratello più grande Adelfo (7 anni) e la sorella Noemi di 11, che lo hanno accompagnato, lo seguono con lo sguardo. Una frazione di secondo. Un boato tremendo. Fumo. L’esplosione investe Edoardo. La sera prima “Pippo”, il bombardiere notturno americano, aveva seminato terrore sui paesi e i campi del Friuli. Bombe a farfalla, piccole e micidiali. Chiamate così, perché la carica esplosiva è agganciate a due alette che frenano la velocità e che sembrano, appunto, le ali di una farfalla. Un nome innocuo per ordigni assassini che colpiscono soprattutto la popolazione civile.
La gran parte rimaneva a terra senza esplodere, trasformandosi in micidiali mine anti-uomo difficili da individuare. E, per questo, vietate dalle convenzioni internazionali.
La mattina del 22 marzo 1944, una “farfalla” è lì, silente, che aspetta nel cortile della scuola. Quando Edoardo la sfiora con il piede non ha scampo: l’esplosione gli porta via le gambe dal ginocchio in giù, scaraventandolo nel cratere della bomba. Una buca larga tre metri. Il piccolo Edoardo è sul fondo in una pozza di sangue, privo di conoscenza. Le suore urlano, tutti corrono. Le suore gridano: «C’è un bambino morto, C’è un bambino morto. È morto un tosatel». Noemi è ancora ferma sul cancello, terrorizzata. «È morto tuo fratello. È morto tuo fratello», ripetono le suore. Nessuno ha il coraggio di andare a vedere. L’asilo è accanto alla caserma dei Carabinieri Reali. Accorre un brigadiere, prende una coperta dalle religiose, entra nel cortile, si avvicina alla buca. Vede il piccolo. Lo avvolge. Lo raccoglie. Lo prende in braccio, lo tiene stretto al petto. Le gambe maciullate. Cerca di frenare l’emorragia. Lo carica sulla camionetta, e via, a Sacile, all’ospedale militare occupato dai tedeschi. La notizia della bomba all’asilo corre veloce in paese. «Tutto ma non i bambini», si disperano le madri maledicendo il duce, gli americani e la guerra. Pochi giorni prima, colpita sempre da una “farfalla”, era morta un’altra ragazzina con le gambe andate in cancrena. Il podestà raggiunge l’ospedale con il fiato in gola. «Basta morti - dice col tono della supplica al chirurgo, un militare tedesco -. Questo bambino dovete salvarlo. Questo bambino DEVE vivere». Il medico fa quello che può: amputa, tampona, ricuce. Il giorno dopo, un soldato della Wehrmacht, impressionato da quello che è successo, passa al setaccio tutta la zona intorno all’asilo. Scivola, schiaccia una mina, salta in aria. Il corpo dilaniato in mille pezzi.
Edoardo resta in coma per alcuni giorni. Ha 4 anni e il suo destino è segnato. È un “invalido civile di guerra”. Un “mutilatino”. Così li chiamano quei bambini, vittime innocenti: ciechi, sfigurati, senza gambe, senza mani, senza braccia... Nascosti con vergogna dalle famiglie, squadrati con pietà indifferente dalla gente. Dopo 17 giorni di ospedale, Edoardo torna a casa in carrozzina. Non parla, è sotto shock. Non aprirà più bocca per molto tempo. «La mia vita - racconta oggi che di anni ne ha 82 - ha ripreso a scorrere quando don Carlo Gnocchi, nel 1946, ha aperto a Parma il primo collegio per i bambini mutilati. Lì sono stato accolto e curato». A Parma ogni due anni gli tagliano le ossa, «perché - spiega - crescevano». Il chirurgo tedesco gli aveva salvato la vita, ma amputando male. «Le ossa spuntavano dalle ginocchia. Mi imbottivano di cloroformio e tagliavano. Non potevano fare altro».
Il collegio di Don Gnocchi accoglie bambini da tutta Italia. Alcide Degasperi aiuta il prete ad aprire altre strutture: otto in tutto. «Degasperi si rendeva conto della nostra sofferenza e della difficoltà della popolazione a confrontarsi con una realtà tanto dura. Non lo biasimo se, in un certo senso, ha voluto nasconderci. Ma così ci ha protetto. Ci è stata offerta una seconda opportunità. Anche se non tutti avevano la forza di raccoglierla». Si riferisce, Edoardo, a quei ragazzi duramente sfregiati nella carne e nell’anima. «Avevo un compagno che aveva perso gambe, braccia e vista. Un altro col volto devastato. Alcuni si lasciavano andare, non reagivano. Pensavano al suicidio. Anch’io ho pensato di uccidermi. Nessuno ci voleva. Era un’Italia cinica. Non c’era spazio per chi, come noi, veniva visto come un’inutile bocca da sfamare, incapace di dare qualcosa per la ricostruzione e la ripresa».
Ma don Gnocchi non la pensava così. Va a bussare alle porte dei ricchi, dei grandi industriali. Chiede fondi, forniture alimentari, mezzi di trasporto. Tutto quello che serve per aiutarli quei bambini. Perché non c’è nessuno di più incolpevole di loro, e il sacerdote lo sa bene. Don Gnocchi ha vissuto la ritirata di Russia come cappellano militare della Divisione alpina “Tridentina”. Ha visto morire come mosche soldati italiani di 18, 19 anni. Dei ragazzi. È arrivato a dubitare dell’esistenza di Dio, ma ha fatto anche una promessa. «Se torno, farò di tutto per aiutare i bambini e le bambine per alleviare il loro dolore innocente».
Don Gnocchi è tra i primi ad occuparsi della disabilità in modo moderno e non pietistico: negli otto collegi vengono ospitati fino a 2 mila “grandi invalidi” tra bambini e bambine. I suoi collegi non sono un “parcheggio”. Tutt’altro. L’approccio è innovativo e indirizzato al recupero fisico, sociale e lavorativo con sedute di psicoterapia, ergoterapia, fisioterapia. Molto spazio viene dato all’educazione scolastica e alla formazione professionale. Nei collegi operano medici, fisioterapisti, maestri artigiani ed educatori. «Per la società eravamo degli scarti, dei relitti. Don Gnocchi ci ha ridato la dignità e un futuro. Lui ci ha tolto lo stigma della vergogna». Edoardo trova una seconda famiglia in collegio. Lui, che ha solo 5 anni, è il più piccolo, la mascotte. Ma il trauma non lo lascia, anche se non ricorda niente dell’esplosione. Sta muto. Non parla. Non dice niente fino a un giorno del 1948, quando don Gnocchi gli appare davanti. «Un uomo alto, magro, il collarino bianco che spuntava sotto la veste nera. Ero con i miei due migliori amici. Un ragazzino cieco senza gambe e senza mani; e un altro non vedente. Don Gnocchi mi dice: “Edoardo, Riccardo non vede più il sole, e tu invece, il sole, lo vedi”. Da quel momento ho cominciato a parlare. Ho detto qualcosa come: “Sì signore, grazie”. Mi ha indicato la strada, mi ha insegnato a non piangermi addosso. Perché io, rispetto agli altri due, avevo ancora il dono degli occhi. Potevo andare a studiare in una scuola normale. Avere un futuro davanti».
Non è facile ripartire per Edoardo. Non può fare niente da solo. Per la doccia, un compagno più grande lo issa sulle spalle mentre gli altri lo lavano. «Poggiavo il corpo sulle ginocchiere di cuoio. Fino a otto, nove anni camminavo con le mani e con le ginocchia. Poi sono arrivate le protesi di legno, dovevo legarle alla coscia con le cinture di cuoio. Dell’incidente sapevo poco o nulla. I miei genitori per 15 anni non sono mai venuti a trovarmi. I miei fratelli li ho rivisti dopo che ho compiuto i 20. Solo molto tempo dopo ho saputo cosa era successo la mattina del 22 marzo ’44. Me lo ha raccontato il vescovo di Pordenone Ovidio Poletto, che all’epoca aveva 10 anni, ed è stato un testimone diretto dell’esplosione che mi ha portato via le gambe e l’infanzia». Don Gnocchi l’estate li portava in colonia a Cattolica. Nella foto di gruppo, i “mutilatini” senza gambe o piedi nascondono la menomazione nella sabbia. Una parvenza di normalità.«Ma sapevamo anche divertirci. Enzo, un ragazzo cieco grande grosso mi metteva sulle spalle. Andavamo in giro insieme, io gli tiravo le orecchie, la sinistra o la destra, per fargli capire da che parte doveva girare».
Finite le scuole medie. Edoardo si iscrive a Ragioneria a Udine, poi, grazie alla rete di conoscenze di don Gnocchi, trova un lavoro al Viminale nella segreteria del ministro Scelba. Era il primo settembre 1958. «I primi anni è stata dura, perché le persone, all’epoca, non ti vedevano come un uomo in grado di dare qualcosa alla società. Per loro eri solo un mutilato. Uno sfortunato da compatire se non da scansare. Una logica che ho combattuto per tutta la vita. Ho preso subito la patente, ho acquistato un’auto e mi sono sposato. Ma non scorderò mai quando il papà della mia prima morosa le ha proibito di vedermi perché non ero “normale”. Don Gnocchi è stato fondamentale non solo per noi ragazzi ma per tutta l’Italia: è stato il primo a smontare i pregiudizi nei confronti delle persone disabili. Era un precursore: non dimentichiamo che prima di morire nel 1956 ha disposto la donazione delle cornee. Un atto assolutamente rivoluzionario per quei tempi».
Edoardo Feltrin oggi è in pensione, è Grand’Ufficiale della Repubblica, e in giugno il presidente Mattarella lo nominerà commendatore. Con l’Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra, dopo il conflitto nei Balcani, ha portato protesi e aiuti per migliaia di euro ai bambini, vittime, come lui, delle mine e della crudeltà dell’uomo.