«Io, a 18 anni nella Repubblica Sociale. Ecco la mia storia»
Nereo Larcher si è arruolato con quattro compagni di liceo meranesi nella primavera del ’44 «dopo aver ricevuto la cartolina che obbligava a presentarsi al comando della Wehrmacht Non volevamo indossare la divisa tedesca», Nel maggio del 1945 è scampato alla “strage di Oderzo”
BOLZANO. «Pronto, Alto Adige?».
«Sì, dica».
«Ho un problema, Vorrei staccarmi dall’attuale fornitore telefonico, ma la Telecom di cui prima, per 60 anni, sono stato un cliente, dice che doverei cambiare numero utilizzando un sotterfugio che ha tutta l’aria di un imbriglio. Figurarsi se a 97 anni ho intenzione di cambiare numero con tutte le conseguenze del caso...». Il tono è tra il divertito e l’indignato.
«Novantasette? Lei ha sicuramente una storia da raccontare...»
«Sì. Ma non credo abbia voglia di ascoltarla...»
Perché?
«Perché è una storia scomoda. La storia di un vinto».
***
L’appartamento è grande, luminoso, guarda su piazza Tribunale. Nereo Larcher tira fuori dal cassetto una foto in bianco e nero. Sul dorso c’è scritto: “Lago Maggiore - ottobre 1944.” «Questi siamo noi - dice -, tutti meranesi. Amici per la pelle». Sei ragazzi di diciotto anni con la divisa da combattimento della Rsi. Elmetto alla bandoliera, il moschetto mod. 91 in spalla, lo sguardo cupo fisso in camera. Larcher indica con il dito ogni volto da sinistra a destra. «Questo con gli occhiali sono io, questo era Mario, Mario Martin, poi, dopo la guerra intendo, procuratore generale a Bolzano. Questo è Iorio Paltrinieri, poi medico in Liguria. Questo è Carlo Deflorian, poi ingegnere a Merano. Questo dietro è Hermes Budini, di cui, poi, sono diventato il cognato. Ho sposato sua sorella Dolores. Il sesto non era della nostra cerchia, ma si era unito a noi in quanto “meranese”. Quando è stato sciolto il battaglione ci hanno dato 500 lire a testa per tornare a casa. Non le ho mai spese». Sfila la banconota lenzuolo di colore rosa dalla teca della foto. «La nostra “liquidazione”, dice amaro.
Nereo Larcher è un vinto. A 18 anni si è trovato, più per caso che per convinzione, dalla parte sbagliata della storia. Si è salvato dalla resa dei conti per una manciata di ore. Scampato alla strage di Oderzo: 113 prigionieri di varie armi della Rsi, molti giovanissimi, uccisi a guerra finita in vari luoghi della zona. Esecuzioni sommarie, finite in un processo negli anni ‘50 e in condanne in seguito condonate.
Come ogni sopravvissuto, Larcher non ama raccontare. Smorza, minimizza, riduce tutto all’osso. Un po’ per pudore. Un po’ perché quella strage è finita sotto il tappeto della Storia. Il ricordo, però, resta indelebile nella testa di quest'uomo scavato e austero, alto un metro e ottantasei, che vive da solo tra scaffali ricolmi di libri, maschere africane e raffinati tappeti persiani appesi alle pareti dal soffitto al pavimento. «Ricordo dei molti viaggi con Dolores - sospira -. Da quando non c’è più, ho smesso di girare il mondo...».
Larcher riprende in mano la foto del ’44. Un periodo in cui tutto era confuso e lui un ragazzo di provincia catapultato nella guerra civile. Sono ottant’anni dall’8 settembre. Ha fatto i conti col passato: niente, se non la giovinezza, lo lega più al fascismo. Gli resta il sapore agro di quelle morti.
«Capisco il caos della fine della guerra, ma è stata una mattanza senza giustificazioni, fuori tempo massimo».
Impilati sulla scrivania i volumi di Giampaolo Pansa sui fascisti uccisi dai partigiani: Il sangue dei vinti, La grande bugia, I vinti non dimenticano…
Tema delicato, delicatissimo. Perché non ci siano equivoci tra me e lui e con chi legge, ho scelto il registro dell’intervista.
Larcher, partiamo dall’inizio...
«Sono nato nel 1926 a Zara. Mio padre, originario di Folgaria in Trentino, era un impiegato del ministro dell’Interno comandato in Istria. Quando avevo otto anni, è stato trasferito in Alto Adige, a Merano. Lì ho vissuto tutta la mia giovinezza».
Quanti eravate in famiglia?
«Papà Mansueto, mamma Vittoria e sei fratelli: quattro femmine e due maschi. La nostra era una vita dignitosa. Non eravamo né ricchi né poveri. Il fascismo sosteneva le famiglie numerose. E così, ho potuto iscrivermi al liceo classico, il famoso “Carducci” di Merano, quello a cui adesso hanno cambiato il nome...».
Che ricordi ha della sua adolescenza?
«Belli. Ero nato e cresciuto sotto il fascismo, non conoscevo altro. Per noi ragazzi esistevano solo “quei” valori. Il fascismo riempiva le nostre vite da mattina a sera, sette giorni su sette. Il duce era il duce. Ci aveva dato case, lavoro, assistenza sociale. I ragazzini andavano alle colonie estive. A San Vigilio c’è ancora un bellissimo grande stabile di legno. Passavamo le vacanze lassù. Ho ricordi indelebili. Merano era una specie di bolla ovattata. Parliamoci chiaro: per storia familiare, dal fascismo avevo avuto soltanto vantaggi».
Veniamo al 1943...
«Dopo la caduta di Mussolini il 25 luglio, la situazione era di attesa. Nessuno sapeva cosa sarebbe accaduto. Eravamo disorientati, incerti del futuro. Io avevo 17 anni, una coscienza politica approssimativa e poche informazioni su tutto. Ero ancora acerbo. Certo, noi ragazzi non eravamo ciechi. Sfottevamo gli atteggiamenti ridicoli di alcuni gerarchi e anche di Mussolini, ma niente di più...
L’8 settembre cosa accade?
La mattina del 9 ci siamo trovati i tedeschi in casa. Ricordo le divise, la brutalità, l’arroganza, l'occupazione totale delle istituzioni. Da italiano avevo i brividi.
Ha assistito alla caccia agli ebrei meranesi?
«Personalmente no. Tante cose le ho sapute solo dopo la guerra. Ormai eravamo Alpenvorland, zona di occupazione del Terzo Reich: arruolavano tutti nella Wehrmacht. Nel ’44, appena compiuti i 18 anni, mi è arrivata la cartolina per la leva obbligatoria».
E come reagì?
«Non mi andava di vestire una divisa tedesca».
Quindi?
«Eravamo un gruppetto di cinque compagni di liceo, amici per la pelle, non come quelli di Facebook, amici veri. Ricevemmo tutti la cartolina che ci obbligava a presentarci al comando della Wehrmacht. Ci siamo guardati in faccia. Non avevamo la minima intenzione di servire i tedeschi, ma nemmeno di tradire quelli che fino al giorno prima erano gli alleati dell’Italia. Insomma: i tedeschi non ci piacevano, ma non li vedevamo come nemici...».
Cosa avete fatto?
«Disertato».
In che senso?
«Ci siamo detti: piuttosto di indossare la divisa di Hitler, ne indossiamo una italiana. Abbiamo deciso di aderire alla Repubblica sociale con spirito anti-tedesco. Siamo saliti su un treno e via fino a Verona, dove c’era l’ufficio reclutamento della RSI. Le istruzioni ce le avevano date alcuni meranesi che già si erano arruolati. Per la Wehrmacht eravamo disertori.
Non avevate paura?
«Non c’era tempo per avere paura. La scelta era obbligata. I partigiani qui non c’erano, neanche sapevamo che esistevano, i partigiani. Ma, tengo a dirlo, non eravamo dei fascisti fanatici. Ogni storia personale va calata in quel determinato contesto, in quelle giornate. Difficile giudicare con il senno di poi. Lo scrive Beppe Fenoglio nel “Partigiano Johnny”. Lo scrive Calvino ne “Il sentiero dei nidi di ragno”. Da una parte o dall’altra, spesso era solo il frutto del caso o di un’idea politica vaga. Si sono spaccate famiglie. Fratelli che hanno combattuto uno da una parte, uno dall’altra. Ci siamo schierati. Avevamo rispetto per i cosiddetti “ribelli”. Come noi, non si erano imboscati».
Capisco cosa dice. Mio nonno materno, ufficiale dell’esercito, catturato dagli americani in Sicilia, dopo l’8 settembre fugge dal campo di prigionia, risale il Paese e si arruola a Salò. Mio nonno paterno, di tradizione socialista, soldato di fanteria, stanco marcio della guerra e del fascismo, si consegna agli alleati e combatte poi con la divisa americana contro i nazifascisti. Sono orgoglioso del mio nonno paterno ma capisco la tragedia di quello materno...
«Dopo la guerra questa lacerazione era devastante. Per noi vinti c’era il marchio della vergogna. Non potevamo parlare di quello che avevamo visto e vissuto. Dovemmo fare anche i conti con il lato oscuro del fascismo, con quello che venimmo a sapere”.
A cosa si riferisce?
“I campi di sterminio, l’annientamento degli ebrei. Non fu facile rimettere tutto in discussione, mantenendo comunque saldi alcuni valori. Noi eravamo fascisti, perché il fascismo ci aveva allattato. Nessuno ci aveva mai detto che esisteva anche un modo diverso di vedere il mondo».
Possibile che non avesse mai sentito niente della persecuzione degli ebrei? Merano era sede di una comunità molto importante...
«Sono sincero: in quel momento sapevo poco o niente. Anche le leggi razziali… avevo 16 anni quando vennero promulgate. Non possedevo gli strumenti per capire che cosa avrebbero comportato. Nessuno metteva in dubbio la parola di Mussolini, men che meno noi ragazzini. Dopo la guerra, quando ho saputo, quando ho letto, quando ho sentito, ho provato un grande dolore. Non lo dico per scaricarmi la coscienza, ma eravamo veramente all'oscuro di tutto».
Lo storico Gianni Oliva nei sui libri sui “ragazzi di Salò”, fa un lungo elenco di giovani che aderirono alla RSI e che poi, nel secondo dopoguerra, divennero pilastri dell’Italia democratica in molti settori: Dario Fo, Raimondo Vianello, Walter Chiari, Ugo Tognazzi, Enrico Maria Salerno, Mauro De Mauro. Enrico Ameri... Dice che non si può mettere un uomo in croce per tutta la vita per una scelta fatta a 17 anni.
«Sono d’accordo. Il mio comandante di anni ne aveva 26 anni e io lo vedevo come un vecchio. La mia classe era la più giovane. Ma c'erano anche ragazzi del ’27. Provi a pensare a un diciottenne di oggi...».
Gioca ancora con la play station
«Esatto».
Torniamo all’aprile 1944, vi presentate al comando della Rsi di Verona e...
«Siamo rimasti presso il reparto con diversi compiti. Ricordo il periodo di guardia ad una polveriera in Val Camonica e l’accantonamento a Mompiano, vicino Brescia durante l’estate. Eravamo messi così male che non c’era nemmeno una divisa estiva della mia taglia. E così a corto di munizioni che, per risparmiare proiettili, non abbiamo fatto nemmeno i tiri di prova. Verso la fine di settembre ci mandarono a Varese per il corso di allievi ufficiali».
In ottobre vi spediscono a “ripulire” la Val d'Ossola dai partigiani.
Il nostro compito, e parlo della mia compagnia, era di seconda linea e soprattutto di “guarnigione”. Scontri veri e proprio non ne abbiamo mai avuti se non qualche scaramuccia senza conseguenze. Ricordo solo grandi disagi.
Del tipo?
«Passare la notte seduti sotto la pioggia fra le macerie di una malga con solo l’elmetto per riparo. O le scarpinate perché, in quanto meranesi e quindi “montanari, toccava a noi scendere a valle e risalire in quota con i vivere che venivano distribuiti ogni tre giorni. In poche parole: un mese di fame, freddo, dormite all’addiaccio sulla nuda terra e marce estenuanti. Il nostro equipaggiamento consisteva in quello che stava nel portapane. C'erano un sacco di delinquenti in giro che derubavano i contadini. La popolazione era alla fame. Per quanto riguarda la mia compagnia, posso dire che eravamo onestissimi, il nostro comportamento è stato ineccepibile. Tornammo sporchi e pieni di pidocchi».
Lasciata la Val d'Ossola...
«Pochi giorni dopo il nostro rientro a Varese ci mandano alla Scuola Allievi di Oderzo, in provincia di Treviso, dove siamo rimasti fino alla fine della guerra. Fu un viaggio “movimentato” su camion scassati oggetto di qualche raffica dei caccia americani. A Oderzo, il Battaglione Allievi venne sistemato in periferia, in un grande fabbricato del Collegio Brandolini Rota dei Padri Giuseppini del Murialdo. Il comandante era il colonnello Rinaldo Sperandio, un uomo austero ed esigente...».
Avete partecipato a rastrellamenti?
No, mai. A Oderzo eravamo un po’ in attesa, la situazione era abbastanza tranquilla. Ogni tanto i partigiani sparavano di notte alle nostre sentinelle. Noi rispondevamo al fuoco. Erano atti dimostrativi, non hanno mai ammazzato nessuno. Le giornate passavano tra lezioni in aula di tecnica militare e ore di ginnastica e addestramento. La disciplina era molto severa, la selezione durissima, molti furono cacciati dal corso. Alla fine eravamo poco più di trecento. Due o tre volte il Brandolini è stato preso di mira dai “Pippo”, gli aerei americani. Lanciavano spezzoni incendiari e bombe farfalla”.
Com’erano i rapporti con la popolazione?
Buoni. Non eravamo le Brigate nere. Da allievi eravamo tenuti a un comportamento esemplare durante la libera uscita. La gente apprezzava. Questo rispetto, alla fine della guerra, salvò la vita a molti di noi...
Cosa accadde nei giorni della Liberazione?
Quando si stava squagliando tutto, intorno al 20 aprile, il nostro comandante Giovanni Baccarani si mise in contatto con il Comitato di Liberazione Nazionale e, con l’aiuto del parroco, fece un accordo. Il comandante locale del Cln era una persona ragionevole, e noi allievi avevamo una buona reputazione. Il 21 aprile ricevemmo tutti la nomina a sottotenente. Un gesto simbolico, ma per noi importante.
Cosa prevedeva l’accordo col Cln?
Noi ci saremmo arresi, e loro ci avrebbero dato un lasciapassare. Non tutti erano favorevoli ad accettare la resa, ma nessuno si oppose veramente. Era finita. Il 28 aprile ci consegnarono un ciclostilato del Cln con un timbro del municipio di Oderzo. Sul mio c’era scritto: “Il signor Larcher Nereo è autorizzato dal Comitato di Liberazione Nazionale di Oderzo di raggiungere la propria famiglia a Merano (Bolzano)”. (Lo conserva ancora insieme alla banconota, ndr).
Poi cosa accadde?
Lasciammo le armi rese inservibili nel magazzino del Brandolini. Il nostro comandante ci diede 500 lire a testa per tornare a casa. Alcuni di noi vennero nascosti dalla popolazione. Io e altri fummo ospitati in un appartamento fino ai primi di maggio. Altri vennero accantonati in caserma, in attesa di istruzioni. Dopo qualche giorno, ci avvisarono che stavano arrivando i comunisti. Le voci erano incontrollate. Dicevano che i titini ci avrebbero ammazzati. Dicevano che era meglio scappare. Alcuni se ne andarono subito, altri restarono confidando nel lasciapassare. Quelli rimasti, li hanno rastrellati tutti. E può immaginare la fine che hanno fatto. I titini non arrivarono, ma le esecuzioni sommarie iniziarono subito».
La strage di Oderzo, a cui voi meranesi scampate per caso. Questione di ore.
«Sì, fu la gente che ci nascondeva in casa a dirci di sparire in fretta. Avevano saputo che alcune formazioni partigiane non avrebbero rispettato il lasciapassare del Comitato di liberazione. Ci hanno salvato la vita. Noi meranesi ci siamo separati per ragioni di sicurezza. Io ho preso la strada verso la Valsugana con un compagno di corso della Val di Fassa. Carlo Deflorian e Hermes Budini s’incamminarono verso Belluno, vennero più volte fermati e rilasciati dai partigiani. Li graziarono tre o quattro volte. Iorio Paltrinieri e Mario Martin scelsero la via di Verona. Volevamo solo arrivare a casa e metterci tutto alle spalle”.
Come fu quel viaggio?
Ci ho impiegato tre, quattro giorni. Un po’ a piedi, un po’ su un carretto tirato dai buoi. Un pezzo in corriera con partigiani che hanno rispettato il lasciapassare, e poi in treno da Bolzano a Merano. Non ho avuto problemi. È andata bene. Sono arrivato a Merano l’8 maggio del ’45. La città era tappezzata di manifesti che ordinavano agli appartenenti alla Wehrmacht e alla Rsi di presentarsi al Comando alleato di Bolzano. Molti lo fecero e scontarono alcuni mesi di prigione. Noi “meranesi di Oderzo” ne avevamo abbastanza. Decidemmo di non presentarci. Una specie di patto tra fratelli. Eravamo cresciuti insieme: stessa classe al Ginnasio e al Liceo, poi la guerra… Certi legami sono più forti del sangue. Siamo rimasti amici tutta la vita. Sa cosa mi dà fastidio?
Dica...
Il silenzio sulle migliaia dei nostri ragazzi ammazzati dopo il 25 aprile. Un gruppo dei nostri, quattro o cinque compagni di plotone e di camerata del centro Italia, ha preso una corriera “pontificia” per tornare a casa. Autocarri Lancia 3Ro messi a disposizione dal Vaticano su cui svettava il drappo papale, per garantire un rientro “sicuro”. L’autocarro sparì nel nulla e divenne “la corriera fantasma”. Non hanno trovato né i corpi né il camion, e la guerra era finita da venti giorni. Avevano tutti il salvacondotto del Cln, ma non servì a garantirgli la vita. La strage di Oderzo, poi, è stata una carneficina senza senso. Come facevano a giudicare senza un giusto processo, se una persona meritasse o meno una fine del genere, soltanto perché era nella Repubblica sociale?
Cosa ha fatto dopo la guerra?
Mi sono iscritto all’università. Ho frequentato un anno di chimica a Padova e poi, siccome non potevo vivere fuori sede perché non c’erano quattrini, mi sono iscritto a una università che mi permettesse di non frequentare.
Quale?
La Bocconi, Economia. Sono entrato alla Cassa di Risparmio che c’era un unico laureato. Io ero il secondo. Ha fatto tutta la trafila da impiegato di seconda fino a dirigente di terza. A fine carriera, con un collega di pari grado, avevo sopra di me solo i due generali, il direttore e il suo vice.
Lei è ancora fascista?
No. Resto di destra. Un convinto democratico di destra, un conservatore, ma non un fascista. Aborro le dittature e i fanatismi di ogni tipo e colore. Dopo il ’45 non ho mai più pensato che il fascismo fosse una cosa giusta. Anche se, certo, mi infastidiva vedere come, di colpo, fossero diventati tutti antifascisti e partigiani...
Pensa ancora ai suoi amici uccisi?
«Non ho mai smesso. Dopo la guerra. per anni, ci siamo ritrovati a Oderzo per la messa in memoria nell’anniversario della strage. Negli anni della contestazione hanno iniziato a tirarci le pietre e abbiamo rinunciato. Ma i volti di quei ragazzi li ho ancora qui davanti. E lo saranno finché avrò vita».