I 100 anni di Elsa Stefani, la ragazza coraggiosa che aiutava i prigionieri italiani
8 settembre 1943. Rischiando la vita, raccoglieva i messaggi lanciati alla stazione di Bolzano dai soldati catturati dai nazisti e diretti sui carri piombati nei lager in Germania. Dopo la guerra, uno di loro l’ha cercata per 16 anni per ringraziarla
Bolzano. Mercoledì 21 aprile compie 100 anni Elsa Stefani, la “fatina buona dei prigionieri”. I prigionieri erano i soldati italiani catturati in Alto Adige subito dopo l’8 settembre 1943, radunati sul greto del Talvera, poi alla caserma Huber, poi ancora fatti sfilare in colonna per la città tra due ali di SS inferocite fino alla stazione, dove venivano caricati sui carri bestiame destinazione Germania. In stazione c’era lei, Elsa Stefani, una bella ragazza di 22 anni. Mora di capelli, intraprendente e sfrontata di fronte ai tedeschi, Elsa sta lì orgogliosa, saluta, incoraggia gli italiani a non mollare. Se ne infischia delle intimidazioni, dei fucili puntati, del ringhio delle guardie: allunga un pezzo di pane, chiede a quei ragazzi se hanno bisogno di qualcosa. Una pagina di resistenza al femminile nei giorni bui di Bolzano, quando le donne raccoglievano i messaggi lanciati in strada dai militari catturati(e più tardi dai deportati del lager di via Resia), per far arrivare notizie certe alle famiglie. Elsa, è una di loro. Donne che non hanno paura a mettere in gioco la vita. Che si accalcano lungo le strade, che passano una mela, borracce d’acqua, sigarette, una coperta, un maglione. Che imparano a memoria in una frazione di secondo una frase da trasmettere a genitori, fidanzate, fratelli.
Elsa, all’epoca, è impiegata nello studio di un noto avvocato, ma in quelle giornate convulse, dove tutto è fermo e incerto, c’è una cosa più importante: stare vicino a quei giovani con le divise sgualcite, le facce peste e insanguinate, lo sguardo assente degli sconfitti, che stanno per essere inghiottiti nelle tenebre del Terzo Reich. Il 10 settembre 1943, spinto col calcio del fucile verso i treni, c’è anche Mario Mainardi, un fante di 33 anni, originario di Torrile, un paese vicino a Parma, catturato con tutto il reggimento.
Mario vede Elsa mescolata alla folla che tra raffiche di mitra, imprecazioni e lacrime saluta i suoi figli. Non c’è tempo per pensare. Bisogna agire d’istinto. Decide che si può fidare. Urla, la chiama a gesti. Lei lo guarda. «Sì proprio tu - grida Mario -, ti prego avvicinati».
Elsa si fa largo, sa cosa deve fare: sgomita tra le mamme in lacrime, in un inferno di ordini latrati in tedesco, tra calci e pugni che la colpiscono alle gambe e sul costato. Arriva al cordone nero e verde dei soldati della Wehrmacht, delle SS, degli sgherri dalla Sod. Dietro, la folla spinge e ondeggia. Davanti, la forza uguale e contraria dei nazisti, con i fucili impugnati in orizzontale, per respingere quella massa disperata e furiosa. Elsa è lì, oltre la barriera delle guardie, con la canna del fucile che preme sullo stomaco, a due passi da Mario.
Anche Mario spinge tra i suoi compagni. Cercano tutti di fare la stessa cosa: mettere in mani sicure un messaggio, forse l’ultimo, da mandare a casa. Mario ha infilato una banconota da mille lire in un foglio bianco con l’indirizzo della famiglia. Una cifra notevole. Infila il braccio nel muro delle guardie, cerca la mano di Elsa. Elsa si allunga strappa il biglietto a Mario e lo nasconde nella tasca della gonna. Mentre Elsa si allontana, lui grida una preghiera: «Ti scongiuro, in nome di Dio, fallo avere a mia madre. Dille di non avere paura. Di non darsi pena per me. Diglielo».
Elsa risponde “sì, lo farò, stanne certo”, ma la sua voce si perde nella calca. Mario la vede sparire, persa tra quelle mani tese, tra centinaia di facce, come un pezzo di legno sommerso dalla cresta delle onde. Che è quello che si sente lui: una barca che sta per affondare nella tempesta.
Mario viene caricato sul carro bestiame. Destinazione Stalag VI C/7, nelle paludi malate della Bassa Sassonia. È uno dei 600 mila Imi, acronimo di “Internati militari italiani”, rinchiusi nei campi di concentramento nazisti dopo l’armistizio. Lo Stalag VI C/7 è uno dei peggiori per le condizioni e il trattamento dei prigionieri di guerra, con un tasso di letalità altissimo. I suoi compagni muoiono come mosche di fame, tifo, polmonite, cancrena, tibicì. Il primo ottobre 1943, sono già 11 mila gli italiani rinchiusi là dentro, tenuti come bestie, picchiati, costretti a rubare di nascosto le bucce di patate dall’immondizia come cani randagi.
Mario resiste. Non cede neanche di fronte al ricatto della “vita salvata” in cambio dell’adesione alla Repubblica di Salò. Lui non firma. Ne ha abbastanza del fascismo, della guerra, di Mussolini. Sopravvive alla fame, ai bombardamenti, al lavoro da schiavo nelle fabbriche di Hitler. Il 29 giugno del 1945 il campo viene liberato dagli americani. Mainardi, stanco, pelle ossa, provato dalla prigionia, sopravvissuto ai suoi amici più cari, riesce a tornare a casa nell’agosto di quell’estate torrida e drammatica. Non si era fatto troppe illusioni sui soldi, sul messaggio mandato alla madre. Anzi: non ci aveva proprio più pensato, travolto dall’orrore del lager, convinto che i suoi ormai lo piangessero.
Ma a Parma, dopo tre giorni e tre notti passati a dormire e scordare i morti, quando non ha più voglia di svegliarsi, di alzarsi, di mangiare, di tornare a vivere, è sua madre ad accendere una fiamma a cui si aggrappa con la forza di un naufrago. «Poche settimane dopo l’8 settembre - gli racconta - è arrivata una lettera a casa». Un fatto inusuale in quel tempo dannato. Subito avevano pensato che fosse sua, di Mario. Di lui non sapevano più nulla, se fosse vivo o morto, ucciso dai tedeschi o murato vivo in un campo di concentramento chissà dove.
La lettera invece è di una ragazza bolzanina, Elsa Stefani, e dentro c’è una banconota da mille lire. Elsa scrive di aver visto Mario alla stazione di Bolzano, e che Mario, prima di essere caricato sui vagoni dai tedeschi, le ha affidato i soldi. Scrive che le sue ultime parole sono state per loro, i genitori. «Dì a mia madre di non preoccuparsi. Dì loro che sto bene e tornerò sano e salvo». Scrive ancora, Elsa, di non disperare, che il loro figliolo ce la farà, che lei ne è sicura.
La madre porge la lettera a Mario. Mario la stringe al petto, sua madre piange, lui gira la testa dall’altra parte con gli occhi gonfi. Vorrebbe ringraziare quella ragazza. Per l’onestà, per aver rincuorato i suoi, per essere stata una luce in quegli anni dove le famiglie piangevano i giovani sacrificati da Mussolini. Molti suoi amici non erano tornati, persi per sempre nei campi nazisti, nelle steppe gelate del Don, in una buca di sabbia in Nordafrica. Vuole ringraziarla anche perché non l’ha deluso, non ha mancato la promessa. Quel gesto, piccolo ed eroico, gli ha ridato la speranza che credeva perduta per sempre. La lettera è firmata solo “Elsa”, la busta con l’indirizzo non si trova più. Passano gli anni, Mario non riesce a dimenticare. Nel giugno del 1959, 16 anni dopo l’8 settembre, manda una lettera all’Alto Adige, il nostro giornale, che viene pubblicata con enfasi. Mario riassume la sua storia, e lancia un appello a quella giovane donna con il sorriso dolce e i capelli scuri. «Voglio ringraziare la mia benefattrice», scrive semplicemente.
Elsa legge l’articolo, e gli risponde. Il 17 luglio 1959 l’Alto Adige titola così: «Era per i nostri prigionieri come una fatina buona. Si è fatta viva la ragazza di 16 anni fa. Prima d’essere deportati in Germania, alla stazione, molti le consegnarono denaro e lettere per i loro cari ».
Scrive Elsa Stefani a Mario Mainardi: «Ho letto la lettera da lei fatta pubblicare dall’Alto Adige, e, pur essendo passato molto tempo mi ha commosso il suo ringraziamento indirizzato alla mia città e a me. In quei tristi giorni, mi recavo alla stazione a salutare i soldati che partivano per la dura prigionia ed in due diverse occasioni ho avuto in consegna del denaro: una somma da spedire a Pavia, e una somma da spedire a Parma; una di 300 lire, l’altra di 1.000 lire. Le famiglie mi hanno risposto ringraziando ed a lungo ho conservato questi pensieri di gratitudine. Se una delle somme corrisponde alla cifra da lei consegnatami, può dire di aver ritrovato chi lei chiama troppo gentilmente la sua benefattrice. Sono contenta che conservi di Bolzano un ottimo ricordo ed ancora oggi sono felice di aver portato una nota di gioia alla sua famiglia».
Elsa si era dimenticata di quell’episodio, fino a quando non era riemerso dalla nebbia opaca della guerra sotto forma di un articolo di giornale. Perché era solo uno delle decine di messaggi che lei aveva raccolto e recapitato. Nel 1943 abitava con la famiglia (i genitori, cinque sorelle e un fratello), molto vicino ai binari. Ogni giorno si fermava ad osservare i carri merci con i militari italiani in partenza. Quando i tedeschi o la Sod allentavano per un attimo la sorveglianza, si avvicinava. Raccoglieva messaggi, lettere, bigliettini, piccoli oggetti, gettati dalle feritoie dei vagoni, che poi diligentemente spediva alle famiglie accompagnati da una lettera in cui invitava a non perdere la speranza. Sempre cercando le parole migliori, mai ripetendo le stesse. Perché sapeva, che le parole contano, e possono essere un’ancora a cui aggrapparsi saldamente nell’attesa che tutto finisca.
Per Elsa era normale, non c’era niente di eroico o da glorificare, e se Mario Mainardi non l’avesse cercata 16 anni dopo con tanta tenacia, probabilmente, oggi, non stareste leggendo questa storia. Che è una storia di Resistenza e di donne coraggiose. Altro che “fatine”. Mercoledì, Elsa festeggerà i suoi cento anni con i nipoti che l’adorano, le cinque sorelle e il fratello, ancora accanto a lei.
Ma l’abbraccio che merita davvero è quello di tutta Bolzano. Tanti auguri cara Elsa, anche dal tuo giornale, l’Alto Adige.