LA STORIA

Fuga dal Canale di Suez e dalla Legione Straniera. L’impresa di un bolzanino e 100 disertori 

L’evasione. 23 luglio 1955: decine di legionari reduci dalla guerra d’Indocina e condannati per diserzione, si ribellano e si buttano in mare dalla  nave prigione che li sta riportando in Europa. Alcuni restano uccisi. Ma Luciano Saggese, 23 anni, e altri 40 riescono a raggiungere la riva e salvarsi


Luca Fregona


Bolzano. Canale di Suez, 23 luglio 1955. Rada di Port Said, Egitto. Una notte nera senza stelle. Centoquattro legionari si buttano nell’acqua putrida del porto. Sono disertori, reduci della guerra d’Indocina. Tanti italiani. C’è anche un bolzanino: Luciano Saggese, di anni 23. Un’evasione di massa degna dei classici della letteratura e del cinema. Pensata, pianificata, studiata nei minimi dettagli per venti giorni. Da quando la “Anna Salen”, una nave mercantile svedese destinata al trasporto truppe, è partita da Saigon con il suo carico di prigionieri: 104 disertori della Legione Straniera condannati a pene da 3 a 15 anni per aver combattuto con i partigiani viet di Ho Chi Minh contro i loro ex compagni e l’Armata francese. Sapevano che l’unica possibilità di fuga era il Canale di Suez, con le rive così vicine quasi da poterle toccare. Così stretto e difficile da navigare che per portare le navi da un capo all’altro ci vogliono marinai esperti, e i piloti specializzati che salgono sulla tratta, e si mettono al timone per evitare di incagliare o sbattere. Come è successo poche settimane fa al cargo Ever Given, che si è messo di traverso tappando la via d’acqua più importante al mondo.

Roulette russa

Tra le tante storie che hanno accompagnato il Canale di Suez dall’anno della sua apertura nel 1869 ad oggi, quella dei “104” la ricordano in pochi. Una storia che ho incrociato durante le ricerche per il mio libro “Soldati di sventura” sulla odissea dei cinquemila giovani italiani catapultati in Vietnam e Laos tra il 1946 e il 1954. Dal canale andavano e venivano i piroscafi e le Liberty ship che trasportavano i legionari mandati dalla Francia a morire per riconquistare la colonia. Le navi facevano la spola tra il porto di Orano in Algeria e quello di Saigon. Succedeva spesso che molti di questi ragazzi, pentiti di aver firmato l’ingaggio, insofferenti alla disciplina e alla violenza dei Kepì blanc, terrorizzati dalle storie raccontate dai reduci, tentassero di scappare al loro destino, buttandosi nel canale, approfittando della costa tanto vicina. Un tentativo disperato. Pochissimi ce la facevano. Dovevano sopravvivere alle pallottole, alle eliche dello scafo che macinavano “acqua e cristiani”; e poi agli squali e alle correnti. Riuscire ad arrivare a nuoto a terra era come giocare alla roulette russa. Dalla nave gli ufficiali davano ordine di sparare, poi calavano le lance per andarli a prendere. Una volta a bordo, erano botte da orbi. La vita (spesso ma non sempre) veniva risparmiata: la Francia aveva bisogno di carne fresca “straniera” da sacrificare sull’altare della “sporca guerra” al posto dei giovani francesi.

La promessa tradita

Al termine del conflitto, nell’estate del 1954, gli accordi di Ginevra (che sancirono la divisione del Vietnam del Nord comunista dal Sud filo-occidentale sul 17esimo parallelo), prevedevano che i disertori dell’Armata francese in Indocina (e tra questi centinaia di legionari), potessero consegnarsi senza timori di rappresaglie alle autorità francesi per il rimpatrio. Una promessa mai mantenuta. Presi in consegna, vennero rinchiusi in un campo di prigionia a Saigon, sottoposti e interrogatori brutali, e poi al giudizio del Tribunale militare. Nel luglio del 1955, centoquattro “traditori”, vengono imbarcati sulla nave svedese “Anna Salen” per essere riportati in Europa. Una prigione galleggiante.

Sono italiani, tedeschi, spagnoli, belgi, e africani. Il trattamento è durissimo: i disertori vengono rinchiusi nella stiva in condizioni disumane. Ammucchiati uno sull’altro in un caldo insopportabile, l’aria ferma che puzza di urina e sudore. Molti svengono, stanno male anche per la malaria contratta nelle paludi del Tonchino, ma l’acqua viene distribuita solo due volte al giorno: al mattino e la sera. Tra questi uomini che da anni vedono solo sangue e morte, sopravvissuti prima ai guerriglieri viet, e poi alla vita nella giungla, cresce una rabbia feroce e disperata. In Francia li aspetta la detenzione nel carcere delle Baumettes a Marsiglia, che non ha nulla da invidiare ad Alcatraz. E, scontata la pena, il ritorno in Algeria per essere sottoposti ad una altra “giustizia”, quella della Legione.

I “104” sanno che l’unica via di salvezza è la fuga prima di entrare nel Mediterraneo. Ma, prima ancora, bisogna capire dove, come, quando. Dopo pochi giorni di navigazione, il comandante dell’ “Anna Salen”, uno svedese inorridito dai metodi delle guardie francesi, concede ai prigionieri mezzora d’aria al giorno in coperta. Mezzora che serve a studiare a fondo la nave, lo scafo, la poppa, la prua, la carena, i fianchi, il punto esatto dove saltare senza finire dilaniati dalle eliche. A Singapore provano a scappare in tre. Due sono italiani. Si buttano in acqua, ma vengono ripescati subito, riportati a bordo, e pestati a sangue. Uno ha il cranio sfondato. I “104”, per punizione, vengono “murati” nella stiva, la mezzora d’aria cancellata. Passano i giorni: rabbia, frustrazione, stress, diventano benzina pronta ad esplodere.

L’inferno vietnamita

Luciano Saggese era partito due anni prima: aveva abboccato all’amo dei reclutatori che illegalmente (pagati al “pezzo”) agivano anche in Alto Adige per convincere i ventenni in cerca di un lavoro o di avventura a varcare clandestinamente il confine a Ventimiglia e presentarsi al comando della Legione a Marsiglia

Saggese aveva seguito la trafila classica: addestramento durissimo a Sidi–Bel-Abbes in Algeria, un mese di nave fino a Saigon, e poi giungla e risaie nella mattanza della guerra d’Indocina. I 104 prigionieri sulla “Anna Salen” avevano storie diverse ma tutte estreme. Alcuni avevano deciso di disertare per combattere con il Viet Minh, l’esercito di liberazione del Vietnam: una scelta di coscienza e politica, nauseati dalla brutalità francese. Altri per salvarsi la vita, una volta catturati dai partigiani viet. Altri ancora semplicemente perché non ne potevano più della guerra, convinti dai viet con l’illusione (irrealizzabile) di tornare in Europa via Cina e Russia.

In pieno Oceano indiano, dalla stiva diventata ormai un lazzaretto nauseabondo, i disertori chiedono ancora una volta l'intervento del comandante, che accusa apertamente gli ufficiali francesi di usare “metodi da schiavisti”.

La fuga

Vito Tatoli, un romano ostinato e coraggioso, condannato a otto anni, si mette a capo della rivolta e progetta l’evasione. «Quando la nave entra nel canale di Suez - dice -, appena le circostanze sono buone, ci proviamo». L’unica possibilità è un’evasione di massa: ribellarsi, salire in coperta e gettarsi in mare. E non va sprecata. Nella notte del 23 luglio 1955, la nave sta per entrare nella rada di Port Said in Egitto. «Ora o mai più», sussurra Tatoli. Lo ripete in francese e tedesco. Poi dà gli ordini a gesti. Un bavarese prende un estintore e si mette all’imbocco della stiva a fianco del portellone.

Tatoli con una scusa chiede alla sentinella di aprire “perché c’è uno che è svenuto”. La sentinella apre, il tedesco gli spruzza in faccia la schiuma dell’estintore e lo acceca. Gli altri lo disarmano. I “104” sono una muta disperata. Si gettano sulla scaletta che sale in coperta. In 36 riescono a gettarsi in mare prima che venga dato l’allarme. Si buttano come sacchi di cemento nel buio della notte, in un’acqua altrettanto nera che sa di nafta e pesce andato a male. Sul ponte intanto è una vera battaglia, un corpo a corpo. Le guardie sparano. Un italiano, il cosentino Ernesto Occhiuzzo viene ucciso con un colpo in pieno petto. Altri restano feriti. Altri ancora vengono ricacciati nella stiva. La reazione delle guardie è brutale. Puntano i fari sulla cresta del mare: i cecchini prendono la mira per uccidere uno a uno chi annaspa in acqua. Un prussiano che non sa nuotare appare e scompare come un galleggiante. Viene freddato con un pallottola alla testa. Il comandante svedese protesta e chiede aiuto. Sul posto arrivano le motovedette egiziane: puntano le mitragliatrici, bloccano la nave, caricano i sopravvissuti; intimano ai francesi di non usare le armi nelle loro acque territoriali. Il torinese Armando Baratella, sopravvive al mare e alle fucilate, aggrappato disperatamente alle catene dell’ancora. I salvati, tra cui lo stesso Tatoli, diversi tedeschi e belgi, vengono portati al sicuro.

E Saggese? Luciano non ce l’ha fatta. È ancora a bordo. La “Anna Salen” resta ferma due giorni a largo di Port Said. I francesi sono cani feroci. Sputano in faccia agli “ammutinati”. Picchiano, insultano. «Porci traditori, per voi c’è solo la morte». Il terzo giorno un marinaio tedesco, indignato dalla brutalità dei gendarmi, getta ai prigionieri nella stiva una chiave inglese per aprire gli oblò.

Quando la nave inizia le manovre per salpare, i disertori hanno già fatto saltare le finestrelle. Il primo a buttarsi è un mantovano. I francesi non potendo sparare, gli lanciano addosso di tutto, ma lui ce la fa e raggiunge la banchina. Poi tocca agli altri, uno dietro l’altro. Si aggrappano al telaio degli oblò, si issano di braccia, e giù, nell’acqua marcia del porto. Salta anche Luciano Saggese.

Una volta a terra si abbracciano e si contano: sono dodici, sette italiani. Vengono presi in consegna dai soldati egiziani e rinchiusi in carcere con gli altri compagni.

Ma non c’è nessuna intenzione di riconsegnarli alla Francia. È l’Egitto anticolonialista di Nasser, che vuole strappare il canale di Suez all’Inghilterra. Processati per immigrazione clandestina, la pena si riduce a una multa salata che non sono in grado di pagare. Dopo una manciata di giorni vengono consegnati ai rispettivi consolati.

A fine luglio salgono sul piroscafo italiano “Diana”, proveniente da Mogadiscio. Sbarcano a Genova il 2 agosto 1955. La notizia intanto ha fatto il giro del mondo. L’impresa viene descritta in termini epici. Ad attenderli al porto ci sono decine di giornalisti. Tre giorni dopo, Luciano Saggese è a Bolzano. Bussa alla porta dei genitori in via Verona. Non li vedeva da due anni. «Le tragiche vicende passate lo hanno fatto più maturo e pensieroso. Non scapperà più», scrive l’Alto Adige. Quanto ai francesi: dopo la fuga clamorosa di Port Said, danno ordine alle navi con i disertori che partono da Saigon di evitare il canale di Suez e fare il “giro” largo dal Capo di Buona Speranza. Un destino che toccherà a un altro bolzanino: Beniamino Leoni. Ma questa è un’altra storia.













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