LA STORIA

Fame e orrore: la guerra d'Etiopia del bersagliere Adolfo Trentini

Il diario della guerra d’Etiopia di un soldato bolzanino. Il racconto giorno per giorno di 18 mesi in prima linea, dal giugno 1935 al Natale 1936. Da Massaua ad Addis Abeba. I bombardamenti col gas, le fucilazioni di massa, e la paura degli attacchi. L’incubo continuo della fame, l’insofferenza verso gli ufficiali, l’orrore davanti a “montagne di cadaveri”. Il rifugio nella scrittura come àncora di salvezza


Luca Fregona


Bolzano. Cento pagine fitte in bella calligrafia conservate per decenni in un cassetto. È il diario della guerra d’Abissinia del bersagliere Adolfo Trentini, nato a Cles il 26 agosto 1911, e poi vissuto a Bolzano, dove faceva il ferroviere ed è morto nel 1980. Cento pagine senza sprecare nemmeno un millimetro di carta. Diciotto mesi di guerra: dal 28 giugno 1935 all’11 gennaio 1937. Praticamente tutta la campagna d'Etiopia. Da Massaua ad Addis Abeba. La “conquista” dell'Africa Orientale raccontata giorno per giorno da un soldato semplice di trincea. E già questo è inusuale. In genere, la memorialistica è stata appannaggio di ufficiali e generali che utilizzavano i loro ricordi in chiave propagandistica e per fini personali. O delle camice nere che esaltavano l’impresa e la crociata contro un “popolo di straccioni”. Lui no.

C’è poca retorica e tanta sofferenza nelle cento pagine del Bersagliere Trentini, che non ha la licenza media ma scrive in maniera efficacie e onesta quello che vede. Una guerra brutale, impari, razzista, tecnologicamente sbilanciata. Mussolini spedisce 500 mila uomini, 15 mila mezzi tra aeroplani, autoblindo, camion, e carri armati. Autorizza il ricorso massiccio alle armi chimiche.

Trentini viene catapultato da Cles al deserto e poi ai tremila metri di pianure martellate da pioggia e freddo. Certo, è fascista. Certo, ha fede nel duce e nell’onore dell’Italia. Ma nel suo diario la superiorità razziale è appena accennata. Usa la parola “selvaggi” una sola volta. Annota invece i rastrellamenti e le fucilazioni. Annota i bombardamenti col gas. Annota gli effetti tremendi dell'iprite sulle popolazioni dei villaggi. Armi proibite dalla Convenzione di Ginevra. Trentini non rispetta la censura e scrive. La scrittura è la sua àncora di salvezza. Una bolla dove si isola, pensa, rielabora. Si rivolge a un lettore immaginario. Come dire: ma vi rendete conto? Benedice, è vero, «l'ardimento degli aviatori che fanno strage degli abissini permettendoci di avanzare», ma col passare dei mesi subentra la pietà «per quella povera gente devastata dall’iprite su tutto il corpo».

Passa tra “pile di cadaveri”, sotterra corpi mutilati, sente la “puzza orribile della morte”. Anche se alla fine le perdite italiane saranno “minime” rispetto a quelle degli etiopi (4mila morti contro 300mila), l’invasione è tutt'altro che una trionfale passeggiata. Il suo viaggio è una lenta discesa all'inferno. Una guerra di fucile, fatica e piccone. Quando non si combatte, si devono costruire ridotte e fortini, le strade per fare arrivare i camion e carri armati. E poi la paura. La prima linea, il combattimento. Le marce sfiancanti, l’inseguimento delle forze del Negus a cui riconosce di “battersi come leoni”. La guerriglia nelle retrovie che sorprende pattuglie isolate, le fa a pezzi e fa scomparire i cadaveri.   La fame. La logistica che non funziona, i viveri che non arrivano, i muli degli alpini costretti a sostituire i camion impantanati nel fango o bloccati su piste polverose. «Siamo così sfiniti che potremmo morire qui». E ancora le malattie, i compagni uccisi dal tifo. I soldati morti mentre scavano una strada nella roccia o trasportano un cannone. L’insofferenza verso i superiori arroganti. Ufficiali ambiziosi, vanagloriosi, spesso non all’altezza, spesso più giovani di lui che è un richiamato della classe 1911 e a 24 anni è già un anziano. «Se lo sapesse il Duce... » scrive pieno di indignazione.

Il 15 febbraio 1936 partecipa alla battaglia dell'amba Aradam, che decide le sorti della guerra. «Ho sparato così tanto che la sera la canna della mitragliatrice era rossa». In 18 mesi di Corno d’Africa sfila davanti a Badoglio, al viceré Graziani, al ministro delle colonie Lessona. Intravede Starace sulla strada per Gondar. «Dopo tutto quello che abbiamo fatto non ci dicono nemmeno grazie». Poi l'ansia di tornare a casa. «Ho dato tutto, adesso basta».

L'unico conforto, dopo mesi di fronte, sono la messa e la comunione. E i suoi paesani alpini (della Val di Sole, della Val di Non, di Bolzano) che cerca di incontrare ogni volta che può, anche camminando per chilometri da una ridotta all'altra. Il suo quaderno è una testimonianza preziosa, riemersa dopo 85 anni grazie al genero Fulvio Vicentini e al nipote Mattia, un ragazzo di 17 anni innamorato della storia e del bisnonno che non ha mai conosciuto. Ne pubblichiamo alcuni passaggi.

Marzo 1935. Richiamato

Adolfo Trentini viene richiamato il 24 marzo 1935, 3. Reggimento Bersaglieri, 25. Battaglione Mitraglieri. Divisione Sabaudia. Dopo l’addestramento a Livorno, il 13 giugno s’imbarca a Napoli per l’Africa sul piroscafo Belvedere. Dodici giorni di navigazione. Il 25 giugno, sbarca a Porto Massua, Eritrea italiana. I bersaglieri restano accampati per due mesi a 60 chilometri dalla costa, nell’interminabile attesa dell’ordine del «balzo in avanti»: l'invasione dell’Etiopia. Il primo settembre 1935 con una marcia in sei tappe arrivano a Forte Cadorna (“sul confine”). «Da là si vede una distesa enorme di terra abissina». Otto giorni in posizione in una buca. È il fronte nord sotto il comando del quadrumviro De Bono e poi di Badoglio. A sud, dalla Somalia italiana, preme il generale Graziani che vuole arrivare per primo ad Addis Abeba in un’assurda gara di “gloria” davanti a Mussolini.

Ottobre 1935: il grande balzo

Il primo ottobre i bersaglieri vengono spediti in linea «in assetto da guerra con zaini, cassette, mitraglie». Il 3 ottobre il "grande balzo". Entrano in Etiopia alle 5.45 del mattino: 25 chilometri senza sparare un colpo. Il negus Hailé Selassié ha dato l’ordine di ripiegare verso le ambe, i contrafforti sulle alture, per far vedere al mondo l’invasione del Paese. Trentini e la sua squadra vengono spostati sulle colline per proteggere l’avanzata della divisione. Entrano senza problemi ad Adigrat, «sui tucul c’è la bandiera bianca», annota. Proseguono a ritmi forzati. Le strade non esistono o sono semplici piste. I rifornimenti alla prima linea non arrivano per giorni, e se arrivano spesso non sono in grado di sfamare migliaia di uomini. Gli etiopi fanno incursioni dietro le linee terrorizzando i soldati italiani. «Una banda di abissini nella pianura ha preso due dei nostri, chissà che razza di supplizio devono provare...». L’avanzata procede. Dal caldo soffocante di Massua al freddo delle ambe, gli altopiani che salgono fino a 3.500 metri di quota. Il 14 ottobre 1935 scrive: «Andiamo a Macallé, e si crede che là ci sia resistenza, dopo il forte ci sono i guerrieri Galla quelli che sono stati fatali ad Adua». È uno snodo fondamentale sulla via per Addis Abeba, presidiato da migliaia di soldati etiopi. Adesso si spara, si uccide, si muore.

Novembre 1935. Fame

Raggiungono Macallè l’8 novembre. «Una marcia dalle due di mattina fino alle otto di sera con un caffè la mattina e poi niente fino a sera. Io dalla fame non sono quasi capace di stare in piedi, beate le mie polente». La fame diventa un’ossessione. Batte come la punta di una lama infilata nello stomaco. Riempie pagine e pagine del quaderno. 18 novembre: «Oggi sempre uguale: FAME FAME FAME. È due giorni che non si vede nemmeno un pezzo di pane. Sono di una debolezza tale che non ci vedo a tre metri di distanza». Un compagno recupera un sacco di riso ammuffito e rancido. Lo divorano. «Un male atroce al ventre, disperato ho bevuto l’olio della mitraglia, ho rigettato tutto, ora sto meglio». L'indomani scrive: «È già dieci giorni che non ci si può lavare causa che non c’è acqua. Fra la fame e la sete siamo bravi se porteremo a casa le ossa».

20 novembre: «Nella mia squadra è morto un bersagliere che si chiama Melani e la causa è l’acqua paludosa che noi beviamo: gli è venuto il tifo».

Il bersagliere Trentini è testimone dei bombardamenti indiscriminati, delle fucilazioni di massa ma anche della morte e delle torture subite dai compagni dai partigiani etiopi. La contabilità quotidiana della guerra entra nel diario della sua vita sconvolgendola.

23 novembre. «Questa notte un abissino ci ha tagliato per tre volte la linea telefonica, una pattuglia lo ha preso e fucilato».

24 novembre: «Hanno ucciso un nero. Gli hanno intimato il chi-va-là, ma lui faceva finta di non capire allora il caporale lo ha freddato. Il Colonnello a quel caporale non ha fatto niente».

25 novembre. «Sono passati 36 aeroplani e sono andati a bombardare a 30 chilometri davanti a me. Gli abissini si sono ritirati lasciando sul terreno 100 e 100 morti, anche dalla nostra parte ci sono dei morti».

28 novembre. «Abbiamo preso un abissino sospetto. L’hanno spogliato e sotto quegli stracci aveva il disegno di postazioni nostre in prima linea. È stato fucilato subito in presenza di altri neri come lezione ai traditori».

29 novembre: «Oggi 15 o 16 neri hanno aggredito una pattuglia con scimitarre e coltelli ma i nostri li hanno presi e fucilati».

Dicembre 1935. Paura

1 dicembre. «Un’altra disgrazia. Due autisti sono stati assassinati, gli hanno tagliato i testicoli e fatto altre barbarie».

2 dicembre. «Una piccola squadra di militi della “28 ottobre” è stata assalita. Sono stati trucidati tutti. Quando i loro compagni hanno saputo della disgrazia sono andati sul posto. Hanno dato fuoco a tutti i tucul: ardevano ancora questa notte». Le esecuzioni sono continue: «Un bersagliere è stato assalito da tre neri che hanno iniziato a bastonarlo e gli hanno preso il fucile ma senza ucciderlo. Il colonnello ha mandato una compagnia. Sono tornati con 65 uomini e 30 donne, fra questi anche i tre delle botte. Li hanno fucilati».

5 dicembre . «Ho fatto la santa comunione. Era 80 giorni che non potevo ascoltare la messa, ora mi sento più calmo e anche molto rassegnato a tutti gli eventi».

6 dicembre. «Oggi ho preso una tale paura che non ero nemmeno capace di parlare».

11 dicembre. «Il signore oggi ha pregato per me (un battaglione è arrivato appena in tempo per salvare la squadra da un attacco). I nostri li hanno circondati e catturati altrimenti io con i miei quattro uomini non sapevo come me la passavo e forse a quest’ora non ero qua che scrivevo del passato».

Adolfo trascorre il Natale 1935 a Macallé nell’attesa delle battaglie decisive del Tembiene e dell’Amba Alagi. Ottanta chilometri di fronte da controllare. «Oggi è festa. Abbiamo mangiato pasta con un quarto di vino e la sera spezzatino con patatine e fagioli. Dopo tanta fame non ci credevo». Il 31 dicembre il morale è a pezzi. «È stato un giorno tetro, non ero capace di farmi forza. Pensavo a casa, alla libertà, a tutte le feste che mi tocca passare qui in prima linea».

NUOVO ANNO 1936 - "che io credo peggiore del 1935"

3 gennaio. «20 alpini che andavano a fare legna sono stati sorpresi e uccisi. Non abbiamo trovato i corpi».

5 gennaio. «Gli apparecchi di ricognizione sono passati a bassa quota dove hanno bombardato a Santo Stefano. Dicono che si sentiva una puzza di morto da rabbrividire».

7 gennaio. «Non hanno fatto che bombardare, lasciando cadere degli spezzoni incendiari di un quintale e mezzo. Hanno fatto strage completa di una colonna cammellata».

«Un artigliere è stato sorpreso in un tucul mentre si divertiva con una nera. Il marito gli ha dato un colpo sulla testa uccidendolo. Il nero è stato trascinato al comando. Lo aspetta la morte. Da questo fatto si deve imparare a non muoversi mai dalla ridotta».

23 gennaio. «A 8 chilometri si vedeva le tende abissine. Saranno stati 150: è uscito un battaglione e li ha uccisi tutti».

27 gennaio: «Siamo andati fuori di ricognizione. Abbiamo sentito colpi di mitraglia dalla linea abissina. Una compagnia è andata a circondarli, ma quando hanno visto che erano tanti, si sono ritirati e hanno lasciato il compito agli apparecchi che dopo mezzora c'erano sopra in 16 e con i loro confetti hanno fatto 400 morti».

Febbraio 1936: Amba Aradam

L'avanzata italiana sulla amba Aradam (una fortezza naturale di altissima importanza strategica che spiana la strada verso la capitale Addis Abeba), trova una fortissima resistenza.

12 febbraio. «Giorno duro per noi. Siamo partiti alle 6 di mattina sulla sinistra di Amba Aradan. La Divisione “3 gennaio” veniva attaccata dagli Abissini. Noi siamo andati di rinforzo. La 3 Gennaio continuava a chiedere rinforzi perché le loro perdite erano grandi».

13 febbraio: «L’artiglieria ha fatto un lavoro tremendo, e anche l’aviazione coi nostri intrepidi aviatori. Scendevano a 50 metri dal nemico per mitragliare. Le nostre divisioni hanno incendiato un paese».

14 febbraio. «Una compagnia di Alpini ha lavorato tutto il giorno a seppellire morti abissini».

Così descrive la battaglia decisiva del 15 febbraio: «Alle 6 siamo partiti col compito di passare sulla sinistra di Amba Aradam, si aveva 2 bombe a testa e 120 colpi di moschetto. Alle 8 e mezza si percorreva una piccola pianura quando una forte fucileria è partita dalla parte abissina. Dalle pallottole che fischiava non si poteva più alzare la testa. Io trovandomi con la morte così vicina non capivo più nulla».

«Sono venuti all’assalto, credevo ormai di essere travolto, venivano in piedi con un coraggio da leoni. Ma quando erano a 100 metri i primi cominciavano a cadere, quelli dietro si sono spostati dove la 10a compagnia non aveva ancora piazzato le mitraglie. Dopo 5 minuti guardai a sinistra. Ma che ho mai visto! La battaglia era ormai corpo a corpo. Il sangue scorreva in abbondanza. Gli ufficiali sparavano con le pistole e gli abissini contraccambiavano a colpi di scimitarra. Cinque minuti dopo hanno dato un altro assalto e morirono due dei nostri bersaglieri. 30 o 40 abissini hanno tentato ancora di sfondare dove si trovavano due tenenti e il capitano. Questi con le pistole ne hanno uccisi molti ma 4 o 5 si sono dati al corpo a corpo. Un tenente è stato ferito gravemente e nel medesimo tempo il capitano prendeva una pallottola nel ventre, poi una alla testa e alla fine moriva con un colpo di scimitarra alla testa da un ragazzetto di 15/16 anni».

«Il colonnello ha mandato degli altri plotoni della mia compagnia. I superstiti dei neri furono massacrati tutti, ma però anche nelle nostre file la morte aveva fatto la sua passeggiata. Noi quando non si sparava più, si domandava chi era ferito o morto. C’erano otto portantine dove giacevano otto cadaveri dei nostri compagni, e a destra c’era il cadavere del capitano. Non potete credere l’impressione che hanno fatto. Morti abissini ce n’era un numero enorme di tutte le età, tutti armati di fucile e scimitarra. Abbiamo preso posizione fra i morti e là abbiamo fatto la ridotta nella medesima posizione che il nemico occupava questa mattina».

16 febbraio: «Abbiamo fatto da becchini tutta la mattina a seppellire cadaveri. Si faceva delle buche e se ne gettavano giù 25 o 30 ognuna. Dopo pranzo abbiamo cambiato posizione, abbiamo trovato ancora un centinaio di morti, si vede che questi erano feriti e si sono tirati fino qui».

17 febbraio: «Non sono capace di scordarmi i miei compagni morti, più ci penso e più sono afflitto».

27 febbraio: «Siamo entrati nella valle che porta al Passo Falagà. La nostra aviazione ha lasciato cadere di quelle bombe a gas che pesano un quintale circa e se ne vedevano ancora a terra che erano più alte di un uomo».

Marzo 1936: iprite e piccone

2 marzo. «Oggi sono venuti 60 fra uomini e donne a farsi medicare: queste persone sono state prese tutte dall'iprite causa le bombe che abbiamo fatto cadere dal primo al 18 febbraio, e queste bombe erano di gas perciò sono stati presi tutti. Chi agli occhi, chi agli intestini, chi alla pelle. Sono ridotti in brutto stato».

6 marzo. «In una piccola casa, su un po’ di paglia c’era un nero già morto e in putrefazione. Si vedeva che era stato ucciso dai gas gettati dai nostri apparecchi».

17-18-19 marzo. Nelle pause tra i combattimenti vengono mandati a fare strade con pale e piccone. Si verificano molti incidenti. «Un sasso ha colpito un mio compagno alla testa staccandogliela nettamente. E pensare che il giorno prima aveva scritto alla moglie che può star sicura che se non è morto il 15 febbraio sull’Amba Aradam non muore più...».

26 marzo: «Sono venuti 90 neri tutti colpiti dall’iprite per farsi medicare dal nostro dottore»

31 marzo: «Gli abissini hanno attaccato lasciando sul terreno tanti dei nostri compagni. Oggi (gli abissini) hanno combattuto proprio da leoni. Gli apparecchi però fanno dei lavori straordinari, vengono perfino a 50 metri per mitragliarli».

Aprile 1936. Pile di morti

Riprende l’avanzata verso Addis Abeba dopo che aviazione e mortai hanno martellato per giorni le divisioni etiopiche.

2 aprile. «Abbiamo attraversato il boschetto dove l’artiglieria ha sparato per due giorni. C’erano pile di morti alte un metro, mai visto così tanti morti, c’erano anche un’infinità di feriti che si lamentavano tutta la notte con grida strazianti».

3 aprile. «Non abbiamo fatto altro che marciare sopra i morti, poi finalmente siamo usciti nella pianura. Prima di avanzare ho fatto un voto a Sant’Antonio perché ci salvi da un macello sicuro».

12 aprile. «Oggi è il Santo giorno di Pasqua. Anche oggi il rancio non arriva: questo è il ringraziamento delle nostre fatiche e privazioni. Ah, se sapesse il nostro amato duce che il povero militare in Africa viene trattato così male, mentre i nostri ufficiali per loro il mangiare oggi ce l’hanno e hanno anche il vino e per noi niente».

Maggio 1936: Impero.

5 maggio, mentre Mussolini si affaccia a Palazzo Venezia per annunciare la conquista di Addis Abeba da parte di Graziani e la “fondazione” dell’Impero, Trentini annota: «Dopo 7 mesi di sforzi sovra umani e 7 mesi di guerra, oggi le nostre truppe sono entrate nella capitale etiopica Addis Abeba. La sera si vede fuochi d’artificio da tutte le parti per far vedere che tutta l’Etiopia è Italiana e così speriamo che anche noi fra poco torniamo alle nostre case». Vuole solo rimpatriare, mettere nell’archivio dei ricordi una guerra che fatica a comprendere. Ma l’inferno è sempre lì, davanti ai suoi occhi. 15 maggio: «In due compagnie di 400 uomini ce ne sono 115 all’ospedale col tifo. Queste malattie vengono fuori causa l’aria infetta dalla puzza dei morti, qua ce n’è dappertutto sotterrati».

Luglio-ottobre 1936 

Addis Abeba. Repressione

Il 9 luglio entra con la sua Divisione ad Addis Abeba e ne resta affascinato. «Nella capitale - scrive - è come essere in una nostra città, c’è di tutto. C’è dei palazzi, dei caffè, delle trattorie, degli hotel, le strade principali tutte asfaltate. C’è vino, liquori. Insomma, trovandosi in Africa, la capitale è una grande città». Nonostante la proclamazione dell’Impero, la guerra non è affatto finita. Addis Abeba viene continuamente attaccata dai partigiani etiopi, gli Arbegnuocc, fieri e indomabili. La repressione è durissima. Fucilazioni di massa, uso indiscriminato dei gas “proibiti” che devastano foreste e villaggi uccidendo migliaia di persone. Lui annota tutto.

19 luglio. «Al campo d’aviazione c’è stato un attacco con una banda di 500 armati».

29 luglio. «Loro sparano sempre e i nostri apparecchi non fanno altro che bombardare».

30 luglio. «Alle 4 sono stati catturati 500 prigionieri, li hanno fucilati tutti subito».

31 luglio. «Oggi sono stati catturati un po’ di prigionieri, fra questi c’era un vescovo copto che è stato subito passato per le armi!». Si tratta del vescovo di Dessiè, Petros, uno dei capi della resistenza. Usa il punto esclamativo Adolfo. È profondamente credente: l’esecuzione lo sconvolge.

1 agosto. «Oggi presi 3-400 prigionieri che sono stati anche questi passati per le armi al campo d’aviazione».

8 settembre. «Sono stato di rastrellamento con una squadra di Ascari e 5 carabinieri. Abbiamo trovato otto fucili e 5 scimitarre: li abbiamo arrestati tutti e portati in città».

18 ottobre. «C'è stato un combattimento proprio forte a 30 chilometri da qua, morti dei nostri dicono che c’è n’è molti, ma di loro hanno fatto un macello».

19 ottobre. «La battaglia continua, gli apparecchi fanno strage. Dicono che qui intorno ci sono ancora 30 mila neri armati».

21 ottobre. «Gli apparecchi oggi gettano giù certe pillole che fanno venire la pelle d’oca, ma però (gli abissini) sono duri e le perdite sono da ambo le parti».

24 ottobre. «Dicono che c’è un’enormità di morti».

In una situazione surreale, tra un massacro e l’altro, al campo sportivo si tengono gare di tiro alla fune, tornei di pallavolo e una partita di calcio tra Bersaglieri e Fanteria. «Abbiamo vinto noi 2 a 1», riferisce Adolfo alla ricerca di una parvenza di normalità. Ma è una bolla già evaporata al tramonto. «Ieri sera gli abissini hanno ucciso un carabiniere a colpi di scimitarra».

Novembre ’36. Bombe e sfilate

10 novembre. «È partita una colonna di camion senza scorta, gli apparecchi hanno bombardato tutti i tucul che si trovavano vicino alla strada perché non venga attaccata».

13 novembre. «Sono venuti qua 4 o 5 capi a protestare perché gli apparecchi gli hanno bruciato i tucul, ma questo è niente, si accorgeranno di come devono filare sotto Graziani»

Arriva la comunicazione che i Granatieri daranno il cambio ai Bersaglieri entro Natale. Trentini, che vede finalmente avvicinarsi il rientro in Italia, vive con insofferenza le parate trionfali che si susseguono ad Addis Abeba.

Il 25 novembre scrive: «Oggi prove di ginnastica per la sfilata davanti a Graziani del 30 novembre. Faremo l’ultima sfilata e l’ultimo saggio ginnico (prima della partenza, ndr). Si fa l’arco A Noi, la piramide… Dopo 40 mesi da militare e a 26 anni devo fare ancora queste cretinerie...».

Il 30 novembre annota amaro: «Siamo andati al campo sportivo per la sfilata davanti al vicerè Graziani. Credevamo che lui facesse un applauso alla vecchia divisione e la ringraziasse per tutto quello che ha fatto, invece niente, non ha detto una parola. Questo è il ringraziamento dopo 18 mesi d’Africa».

Dicembre 1936. Massaua

Il 9 dicembre arrivano i primi scaglioni dei Granatieri. È finita. Il 28, dopo due settimane di camion, Trentini e i suoi compagni finalmente arrivano al Porto di Massaua. La sera s’imbarcano sul Tuscania. Destinazione Italia.

Gennaio 1937. A casa

Il 7 gennaio Adolfo Trentini sbarca a Napoli «fra gli applausi e le grida delle popolazione». Il giorno dopo è al comando di divisione a Lodi. Il 10 gennaio riceve il congedo, compra un abito, una valigia, un paio di calzini e uno di mutande. Si toglie la divisa, e sale sul treno per Verona. L’11 mattina è a Trento, a mezzogiorno è a Cles. Abbraccia la mamma e i fratelli, prende il quaderno e scrive l’ultima nota. Quattro parole: «Ultimo giorno di naia».













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