Falcone e Borsellino, il murale che unisce Palermo e l’Alto Adige
L’opera realizzato sulla facciata di una scuola di Bressanone da Igor Scalisi Palminteri, ex frate francescano, oggi uno dei più grandi artisti italiani. «Volevo chiamarlo “Sacrificati”, ma poi ho deciso per un messaggio di speranza e ho scelto “Oltre”. Oltre i soprusi e l’ingiustizia»
Bressanone. Paolo Borsellino guarda dritto, le braccia conserte, il viso cupo e preoccupato. Giovanni Falcone, invece, leggermente di tre quarti, un sorriso bonario appena accennato. I colori tendono al grigio, all’azzurro, al blu. Igor Scalisi Palminteri, uno dei più importanti artisti italiani, ha appena finito il suo murale sulla facciata dell’Ite di Bressanone, la scuola che porta i nomi dei due magistrati uccisi dalla mafia nell’estate di sangue del 1992. Verrà inaugurato il 2 dicembre dal prefetto Cusumano. «Ho voluto rappresentarli come due divi del cinema - spiega Palminteri - in un bianco e nero virato verso il blu, con toni di grigio azzurro. In piedi, dritti, in una posa statica quasi iconografica, con lo sguardo rivolto nella stessa direzione ma con due sfumature diverse».
Palminteri, 49 anni, è di Palermo “come Paolo e Giovanni”. Li chiama così, per nome. «Li sento come due fratelli maggiori, accompagnano la vita di ogni palermitano».
Palminteri è nato in un quartiere bello e difficile, la Zisa. Il talento per il disegno lo ha scoperto a 14 anni quasi per caso, partecipando a un concorso per le scuole dove il premio era un giro in barca. «Il tema era la pace tra i popoli. Dipinsi tre pescherecci che pescavano con una sola rete. Volevo esprimere il mutuo soccorso, l’aiuto reciproco. È stato mio fratello ad accorgersi che ero portato per l’arte, io volevo fare il barbiere. Papà allora mi iscrisse al liceo artistico. È partito tutto da lì». Preso il diploma, a 20 anni, entra in convento e diventa “fra Igor”, frate francescano. Ci resterà sei anni. «Avevo bisogno di risposte. Pregavo e dipingevo icone bizantine. A un certo punto, ho capito che avevo bisogno di stare dentro la società, e anche di innamorarmi. Ma mi considero ancora un francescano: anche se non vivo in castità e nemmeno in convento, la condivisone resta il punto cardine della mia vita». Tolto il saio, s’iscrive all’Accademia di Belle Arti a Palermo. Inizia una frenetica attività artistica di “strada”: dipinge porte, muri, affresca chiese. Usa i pennelli per coinvolgere i bimbi dei rioni in mille progetti che hanno finalità sociali e di riqualificazione urbana.
Santi e sante
Sulle facciate dei quartieri più popolari, come la Zisa, l’Albergheria, Brancaccio, lo Sperone, appaiono santi e sante, che parlano di diritti negati e morti in mare. San Benedetto il Moro in scarpe da tennis, «africano, nero e schiavo. Un immigrato santo e patrono di Palermo». Santa Rosalia, bellissima (anche lei patrona di Palermo), che rifiutò un matrimonio combinato. Santa Chiara nel cuore di Ballarò, «donna forte e trasparente come l’acqua: insieme a San Francesco, ha ispirato la mia vita». Sant’Erasmo che guarda il mare con addosso un giubbotto salvagente arancione, aggrappato a due remi. Palminteri l’ha dipinto in pieno salvinismo, quando l’allora ministro degli interni bloccava le navi delle ong nella rada di Catania.
E ancora: don Pino Puglisi, una mamma che allatta, un falegname, un contadino, un pescatore, un gabbiano in volo... Perché santi e sante per Palminteri non hanno necessariamente il timbro del Vaticano. «Quando dipingo le sante e i santi, scelgo modelle e modelli tra le persone a me care. Perché io penso che i miei amici sono santi. Non la santità della chiesa antica, delle nicchie e degli altari. Santo è la luce che ognuno di noi può esprimere». Sant’Erasmo, ad esempio, è Nino Carlotta, artista e “amico fraterno”, che ha collaborato anche al murale di Bressanone. Carlotta ha il volto duro cotto dal sole del sud, incorniciato da una barba nera folta. «Nino è anche il San Giuseppe di Capaci - scherza Igor -, e sarà il San Vitale e il San Luca, che dipingeremo presto ad Armento in Basilicata». Santa Rosalia, invece, è Rossella Palazzolo. «Una carissima amica. L’ho dipinta come la santuzza almeno una decina di volte».
La strana coppia
A proposito di santi laici: Falcone e Borsellino. A Bressanone Palminteri è stato chiamato per la seconda volta da Antonio Bova, curatore e membro del Comitato di educazione permanente «Evviva Bressanone», che ha commissionato l’opera (il primo affresco è stato un murale stupendo per i 700 anni dalla morte di Dante nel 2021).
Bova è insegnante d’arte all’Ite, ma anche consigliere comunale di Fratelli d’Italia. Un fedelissimo di Giorgia Meloni e un ex frate più a sinistra di Fratoianni, che ci azzecca? La “strana coppia” non turba Palminteri. «All’inizio, mi dicevo: mannaggia, com’è possibile? Se parliamo di politica, litighiamo come i pazzi, ma tolto quell’aspetto, se tu non sei un fascista, un razzista, è chiaro che davanti ho una persona. E allora mi chiedo: quali sono le cose che ci uniscono? Con Antonio è la cultura. Bova conosce bene il mio posizionamento politico e la mia storia, eppure è stato lui a cercarmi...».
Come è andata?
Benissimo: sono stato libero nel dipingere quello che ho voluto, sia con Falcone e Borsellino, sia con Dante. Sarà la dodicesima volta che dipingo un murale su Falcone e Borsellino, ma sicuramente la prima in cui l’ho realizzato come volevo.
Come ha scelto l’immagine?
Per fare i bozzetti, parto sempre da un supporto fotografico. In genere da foto che scatto io. In questo caso, ho dovuto lavorare su materiale d’archivio: ho messo insieme due immagini distinte, ed è venuta fuori questa doppia anima».
Cupa ma anche rivolta al futuro...
Sì, lo vedo come un unico ritratto che racconta una storia fatta sia di ombre che di luce. È come se fosse un soggetto solo. Paolo Borsellino ha uno sguardo più malinconico, quasi assente, concentrato su ciò che è successo di brutto. Giovanni guarda più fiducioso al domani, sorridente. Non perché ci sia differenza tra i due, ma proprio perché volevo raccontare questo doppio aspetto: la tragedia che non riesce a uccidere la speranza».
Borsellino sembra disilluso.
«Quando è morto avevo 19 anni. Fu uno shock. Avevo la sua stessa espressione nel murale. Paolo sente la sconfitta che abbiamo subito noi, come siciliani, come palermitani, come italiani. Sente la sconfitta che ha subito lo Stato. Poi, però, c’è questo sguardo di Giovanni, questa idea di riuscire comunque a guardare oltre, ad andare lontano».
“Oltre” è anche la parola che ha scelto come titolo dell’affresco...
Sì, oltre ogni sopruso, ogni ingiustizia sociale. Oltre la mafia. Oltre lo Stato, quando lo Stato diventa connivente. Io avrei voluto scrivere su questo muro: “Sacrificati”. Perché loro, comunque, sono stati sacrificati, e non solo dai mafiosi. Chi li ha fermati veramente sono stati i poteri occulti di uno Stato che non ci rappresenta, ma che esiste anche oggi.
Non sono stati omicidi “solo” di mafia?
Intendiamoci: la mafia è il male assoluto. Ma lo è anche la parte malata dello Stato. Paolo e Giovanni sono stati sacrificati perché stavano arrivando al lato oscuro del nostro paese. A Cefalù li ho dipinti sulla falsariga della famosa foto di Tony Gentile.
Quella dove sono seduti sorridenti, con Giovanni che sussurra qualcosa a Paolo...
Esatto, quella. Il tavolo lo avevo dipinto di bianco. Su questo bianco, volevo disegnare una bomba a mano. Per raccontare un aspetto che di solito si edulcora.
Quale?
Che mentre stavano parlando in un’atmosfera di intimità, di intesa, qualcuno stava preparando la loro morte. Questo “qualcuno” ancora non sappiamo veramente chi è, ma sappiamo che una parte dello Stato era collusa. Nel dipinto che ho realizzato a Bressanone, c’è questa rabbia, ma anche, appunto, la voglia di guardare oltre. Oltre questa sporcizia, questo grasso, questo unto che pesa sulle nostre teste.
E così ha rinunciato a “Sacrificati”...
Il murale guarda una piazza dove ogni giorno passano centinaia di ragazzi e ragazze. Non volevo si trovassero ogni giorno davanti questa scritta: “Sacrificati”.
Troppo nera?
«Sì, non va bene per chi ha tutta la vita davanti».
Ma a Cefalù la bomba sul tavolo l’ha poi dipinta?
«La bomba l’ho dipinta, eccome, ma alle due del pomeriggio è passata la polizia a dare un’occhiata, l’inaugurazione era alle 18...
E?
Il questore chiama il sindaco e dice: se quella bomba a mano resta lì, noi non partecipiamo.
Come è andata a finire?
Mi sono arrabbiato. Ma l’ho cancellata. Se vado in un paese o in un quartiere, non voglio mettere scompiglio, portare una provocazione inutile. Però l’ho detto chiaro.
Cosa?
Pensavo che tu poliziotto fossi con me, che stessimo denunciando la stessa cosa, pur facendo lavori diversi. Invece no, questa è una delle cose che più mi ha turbato. Ma è stato l’unico caso di frizione in tanti anni. Certo, poi, quando l’opera è finita e diventa pubblica, è un altro paio di maniche. Può succedere di tutto.
Come quando Camillo Langone sul Foglio l’ha accusata di essere “al servizio del processo di islamizzazione del Paese”, e che il suo San Benedetto il Moro è “un maiuscolo esempio di propaganda invasionista e razzista”...
«Sì, come se islamista fosse un’offesa, per carità. Mi ha definito anche “pittore un tempo francescano e adesso tatuato”.
Una specie di anti Cristo...
Già. Comunque si sbaglia: io resto un francescano anche se non più frate.
Cos’è oggi la mafia?
Da noi, in Sicilia, la mafia ha preso vita. È stata a lungo il nostro “brand “più importante. L’abbiamo “esportata” ovunque. Ma nello stesso tempo, sempre in Sicilia, sono nati gli uomini e le donne anti-mafia più importanti.
Stanco degli stereotipi?
“Siciliani mafiosi”, “siciliani omertosi”... è una storia vecchia, appartiene a un racconto anacronistico, non veritiero. Il nuovo modo di pensare la Sicilia è anche nel gesto pittorico che abbiamo realizzato qui: un palermitano viene chiamato da un’associazione di Bressanone per dipingere Falcone e Borsellino. In questo viaggio da Palermo e Bressanone c’è una Sicilia che viene raccontata finalmente in un modo diverso.
Lei mette in contatto mondi molto diversi: il rigore quasi asettico di Bressanone e il caos creativo di Palermo.
Il mio lavoro è molto trasversale: la mattina posso essere a Danisinni, che è una delle borgate più popolari, e nel pomeriggio fare un’estemporanea nel negozio più figo del salotto di Palermo, dove il quadro viene venduto all’asta e poi il ricavato va allo Sperone. Il mio progetto vero è creare delle connessioni. Da Agrigento a Palermo, a Bressanone.
A Palermo, i suoi murales sono inseriti nei tour turistici. L’arte riqualifica zone dove prima nessuno metteva piede. Lei insiste molto sul concetto di prendersi cura della città in cui si vive.
«È come se dicessi “mi prendo cura di me stesso”. È un gesto anche egoistico. Si traduce, per me, nel prendermi cura dei bambini nei quartieri a rischio di esclusione sociale. Nel prendermi cura di un muro, rendendolo più armonico, più bello, più colorato.
Sant’Erasmo col giubbotto salvagente è stata una provocazione contro la politica anti-migranti di Salvini?
Il dibattito porti aperti-porti chiusi mi inorridisce. Stiamo parlando di persone. La cosa più importante è salvarle, accoglierle, tirarle fuori dal disagio profondo che stanno vivendo. Se sono salite su un barcone, accettando la possibilità di morire, una motivazione c’è. La politica deve allargare lo sguardo, capire perché questa gente è costretta a scappare.
Invece?
Vedo solo mura invalicabili, pregiudizio, incapacità di empatia. Non c’è differenza tra destra e sinistra. La scelta del Pd di sostenere i lager in Libia, è più o meno grave di Salvini che chiude i porti? Io li metto sullo stesso piano.
Le opere sul muro di un palazzo sono destinate a svanire. Non la inquieta?
Sono effimere, vero. Nel tentativo di restaurare, di far vivere un’opera il più a lungo possibile, c’è anche la paura della morte, del deperimento. Che non riguarda solo l’opera, ma la vita stessa. Io penso, invece, che l’affresco all’aria aperta ha il tempo che gli viene concesso dal sole, dal vento, dalla pioggia. E quando svanisce, significa che, su quel muro, è tempo di farne un altro.
Perché a 20 anni si è fatto frate?
«Può sembrare strano, ma in quel momento, la cosa più bella che potessi fare, era occuparmi di Dio, del mio spirito. Avevo la necessità, seguendo San Francesco, di lasciare tutto per arrivare al nocciolo della questione. Che è la fraternità. Non la povertà. Non la castità, che sono i voti che i frati fanno insieme all’obbedienza. No, il senso profondo del francescanesimo è un altro».
Fra Igor non c’è più, ma lei si definisce ancora un francescano.
«Sì. Con tanta difficoltà, perché la fraternità è scomoda. Gli altri ti rallentano, gli altri ti possono innervosire: la fraternità costringe a discutere, coinvolgere, trovare il compromesso. È uno sforzo continuo, ma è la strada giusta. È la vita che vivi con gli altri in un preciso momento a prescindere dal risultato. Non importa se il dipinto è bello o brutto, se il progetto che hai fatto con i bambini della scuola ha raggiunto gli obiettivi. La fraternità è nell’azione che stai compiendo. L’ho capito in convento. Me lo hanno insegnato i frati».