E Guglielmo Altadonna diventò Willy Springer
L’incredibile vicenda di una famiglia italiana di Bolzano che nel 1940 optò per la Germania nazista. «Non sapevo una parola di tedesco, tre anni dopo non ricordavo più l'italiano. Ci cambiarono il cognome, a 9 anni ero ad Augsburg nella Hitlerjugend»
BOLZANO. Come Guglielmo Altadonna divenne Willy Springer. «Quando i nazisti mi hanno cambiato nome, cognome, e pure la testa». Questa è la storia incredibile di un bambino di 9 anni finito nel tritacarne del Novecento. Oggi Guglielmo/Willy di anni ne ha 88, le gambe non tengono più, ma la memoria è di ferro. La storia te la racconta lui, dalla A alla Zeta, nel salotto della sua casa di Piazza Matteotti. Riavvolge il nastro e comincia.
BOLZANO 1940. Guglielmo Altadonna vive in via Claudia Augusta a Oltrisarco. È nato il 31 dicembre 1931. Frequenta le elementari alle Tambosi. Il papà Rodolfo, originario di Mezzolombardo, figlio di ferrovieri, è operaio della Società Veneta del Gas. Ha 34 anni. È un uomo duro, autoritario, inflessibile coi figli. La mamma Maria Pigarella è di Merano. Ha 31 anni. È figlia di un italiano della Val di Non e di una boema, Josefine von Springer. È perfettamente bilingue. Ma in casa Altadonna si parla solo italiano, la lingua del capofamiglia. Guglielmo ha un fratello più grande di due anni, che ha lo stesso nome del padre, Rodolfo. Tutti, per non fare confusione lo chiamano “Rudi”. E una sorellina, Nori, di neanche 24 mesi. Guglielmo è timido e introverso. Rudi il contrario: esuberante, ribelle, un po’ simpatica canaglia.
Guglielmo ancora oggi non sa dire “perché”, ma nel dicembre 1939, incredibilmente, il padre decide di optare per la Germania nazista. «Forse temeva conseguenze per mia madre. Perché era mezza tedesca. Si diceva che i sudtirolesi li avrebbero spediti in Sicilia (una balla fatta circolare dalla propaganda filonazista, ndr). O forse pensava che con Hitler avremmo avuto un futuro migliore. Chissà». I nonni e gli zii cercano di dissuaderlo, ma il padre è sicuro: «Lassù staremo bene». Le conseguenze sono immediate. Perdono la cittadinanza italiana. Rudi e Guglielmo vengono cacciati da scuola. Un giorno della primavera 1940, gli Altadonna si trovano carichi di valige alla stazione di Bolzano. «Ricordo il treno che ci aspettava. Non un merci. Un treno “vero”, passeggeri, di quelli comodi». Centinaia di persone che salgono, centinaia a terra che salutano. Pianti e abbracci. «Lacrime e speranza, ma tutto sapeva di addio». È l’esodo degli optanti. L’angoscia di chi abbandona tutto e sa poco o niente del futuro. «C’era tutta la famiglia di mio padre, i fratelli, le sorelle, i cugini. Li avremmo più rivisti?». La zia Rosina gli mette in mano un pacco alto così di “Topolino”. «Ero felicissimo, adoravo i fumetti. Mi sono messo subito a leggerli. Ero troppo piccolo per capire». Il treno sale lentamente verso il confine. «Arrivati al Brennero, mio padre mi prende i giornaletti e li getta dal finestrino. “Se li trovano - dice -, passiamo dei guai. Tu d’ora in poi sei un tedesco”». Guglielmo ci resta male. «Un tedesco, io? Ma come faccio?, ho pensato. Non sapevo neanche un parola, nemmeno come si dicesse sì o no..». Il treno riprende la marcia. A Innsbruck vengono alloggiati per qualche giorno all’Aquila rossa, l’albergo degli optanti. «Ricordo una famiglia con 18 figli. In Baviera li aspettava un maso». Poi altre tre settimane a Fieberbrunn, in Tirolo. «Lì c’era anche una maestra, fu lei a insegnarci, a me e mio fratello, le prime parole in tedesco».
GERMANIA. Gli Altadonna vengono mandati ad Augsburg in Baviera. «Augusta in italiano. Il nostro appartamento non era pronto. Siamo stati per un mese in un convento di Orsoline. Li è stato meraviglioso, mi hanno coccolato quelle sante donne. C’era da mangiare ogni bendiddio. Poi ci siamo trasferiti nella nuova casa, una catapecchia in Lauterlechstrasse. Eravamo poverissimi». Il padre viene assunto come meccanico dall’azienda dei tram. Guglielmo e Rudi iniziano ad andare a scuola. «Sapevamo poco o nulla di tedesco, così ci hanno messo in seconda elementare anche se eravamo più grandi. L’abbiamo vissuta come un’umiliazione. Quanto ho pianto. Non capivo niente di quello che mi dicevano». I compagni li prendono in giro, i docenti pure. Li chiamano “Alte Tonne”, “vecchio bidone”, giocando sul suono del loro cognome, Altadonna, in tedesco. «Non riuscivamo a integrarci. Eravamo considerati di una razza inferiore. Una fonte di sofferenza continua. Passavo i pomeriggi chino sul tavolo a studiare la grammatica. Se solo alzavo la testa, mio padre mi allungava un ceffone». Devi diventare come loro, “ein echter Deutscher”, un “vero tedesco”. Ma le cose vanno male. Una mattina, il preside lo manda a chiamare. «Senti tu, Alte Tonne, domani vieni con tuo fratello e i tuoi genitori, che vi devo parlare». Il giorno dopo sono tutti e quattro davanti all’Oberlehrer. Che va subito al punto. «Avete scelto la Germania - dice duro - dovete cambiare cognome, perché così, con questo “Altadonna”, non funziona. Avete qualche parente con un nome tedesco?». La nonna boema. «Von Springer», dice mamma Maria. «Bene - ordina il preside - da oggi vi chiamate Springer. Da oggi siete “veri tedeschi”». Guglielmo diventa Wilhelm, il fratello Rodolfo, Rudolf. Springer. «E così anche mio padre e mia madre. Gli Altadonna non esistevano più. Una cosa che non dimenticherò mai». Finito il “battesimo”, il preside convoca tutta la scuola in cortile. «I miei compagni erano lì schierati, e noi in mezzo a loro». L’uomo urla: SPRINGER WILHELM, SPRINGER RUDOLF. «Io e mio fratello ci siamo guardati, non capivamo. Arriva il custode e ci porta fuori dalla fila, davanti a tutti». Il preside li indica. «Questi ragazzi - grida - da oggi sono dei tedeschi. Sono andati via dall’Italia e hanno scelto la Germania. Hanno avuto la forza di rinunciare al loro nome italiano e averne uno tedesco. Ora sono nostri fratelli».
«Echten Deutschen...», Guglielmo Altadonna, 80 anni dopo, ripete il discorso in tedesco parola per parola. Come se la scena si ripetesse davanti ai suoi occhi. «Tutti applaudirono - riprende assorto -. La nostra vita cambiò da così a così (fa il gesto con la mano). Tutti ci aiutavano. I compagni, i vicini di casa, i colleghi di mio padre... A Natale ci portavano persino dei piccoli regali. La gente iniziò a chiamarmi Willy. So che è difficile da spiegare, ma io ho nostalgia di quel periodo. Ero un bambino e quella era la mia famiglia. Dopo non saremmo stati mai più così uniti».
Il giorno dopo bussano a casa due agenti della Gestapo. «Siete cittadini del Reich, dovete iscrivervi al partito». «Se non aderivi, erano grossi guai. Questo ci era chiarissimo», dice Willy. Il padre entra nella corporazione nazista dei lavoratori dei trasporti. La madre nelle Hitlerfrauen, le donne hitleriane con tanto di spilla sempre in mostra sulla camicetta. «Io e mio fratello nella Hitlerjugend. La gioventù nazista. Ci hanno dato le uniformi marroni con il teschio, il copricapo uguale alle SS e tutto il resto. Io facevo le esercitazioni con il fucile di legno, Rudi con quello vero. Era più grande, doveva già essere pronto per combattere». L’indottrinamento è continuo. «Ci crescevano nel culto del führer e della razza germanica». Una nuova identità, l’iscrizione al partito. La mutazione è irreversibile. Il tedesco diventa l’unica lingua di Guglielmo ora Willy. «Il primo anno non capivo niente. Il secondo ho imparato a memoria la grammatica. Il terzo lo parlavo perfettamente. Il quarto non ricordavo più una parola d’italiano». Nel 1942 fa la comunione. Stile gioventù nazista. Il padrino è un soldato di vent’anni, «lo vedevo come un vecchio invece era solo un ragazzo. Poco dopo è stato spedito a Stalingrado, dove lo hanno ucciso...».
KAZET. Per le prima volta, Willy sente parlare dei campi di concentramento. «Stavo facendo una passeggiata lungo la ferrovia con una signora a cui mia madre mi affidava ogni tanto. C’erano fermi dei vagoni, dei carri merci. Si sentiva la gente piangere. I lamenti. La signora allora ha detto: “Questi qua vanno tutti nel Kazet”. “Cos’è un KaZet?», le ho chiesto. Non avevo mai sentito quel termine». La signora lo zittisce: «Non dire più quella parola». «Capii che c’era qualcosa di orribile». Un’altra volta Willy vede una colonna di prigioniere con la testa rasata e la divisa a righe. Una donna si avvicina per dar loro del pane. «Le guardie l’hanno allontanata col calcio del fucile».
LE BOMBE. La guerra ormai è nel cuore della Germania. Augsburg non ha bunker antiaereo. «I rifugi erano trincee scavate in strada con 60/70 posti, e ricoperte da assi. Nessuno si faceva grandi illusioni». Oltre 80 mila abitanti lasciano la città. Nel gennaio 1944 per paura dei bombardamenti, Guglielmo/Willy viene spedito a Ottobeuren, in campagna, da un contadino che in cambio di una mano gli dà vitto e alloggio. Un giorno di febbraio il cielo diventa nero. «Come oscurato da uno sciame immenso di vespe. Centinaia di bombardieri americani pronti a sganciare l’inferno. In 45 minuti hanno raso al suolo Augsburg. Ho pianto, ero convinto che la mia famiglia fosse rimasta lì sotto». Per tre mesi Willy non sa niente, se siano vivi o morti. Un giorno, a sorpresa, arriva il padre a prenderlo. «Non sai la gioia, quando mi ha detto che si erano salvati». Il padre illeso sotto le macerie di casa. Il fratello Rudi, portaordini, miracolato tra i palazzi che crollavano. La madre e la sorellina, cacciate dal primo rifugio, si erano nascoste in un secondo a poche decine di metri. Il primo è saltato in aria uccidendo tutti, il secondo non è stato nemmeno sfiorato.
LENZUOLO BIANCO. Willy torna in città. Il paesaggio è spettrale: «Non c’era più niente in piedi. La nostra casa rasa al suolo. Ci hanno trasferiti in un altro alloggio in un quartiere periferico». La situazione è durissima. Non c’è niente da mangiare. Willy è in città il giorno del secondo massiccio bombardamento, nel gennaio del 1945. «Era avvolta dalle fiamme, terribile. I caccia hanno continuato a mitragliare a volo radente per giorni. Quando uscivi dovevi correre a zig zag e cercare sempre un riparo». Poche settimane dopo arrivano gli americani, i combattimenti sono aspri, di strada in strada. I cecchini nazi sparano dai tetti. Il capogruppo della Hitlerjugend ordina di aggredire e ammazzare ogni amerikaner col coltello. «Quasi tutti i miei compagni, parlo di un centinaio di ragazzini, sono morti così. Quando l’ho detto ai miei, mi hanno chiuso in soffitta». Il capogruppo salta su un tank e si becca una pallottola in fronte. «I nazisti braccavano mio fratello per costringerlo a combattere, ma siamo sempre riusciti a nasconderlo. Io avevo 14 anni, lui 16. Quando abbiamo capito che era finita, mia madre ha messo un lenzuolo bianco alla finestra, in segno di resa». In un ruscello dietro casa, Willy e Rudi gettano il fucile del padre, le divise, i cappelli, le spille e le fasce con la svastica, ogni simbolo del partito. «Il torrente era pieno. La gente buttava via tutto: bandiere, busti di Hitler, armi». Maria leva le mostrine ai cappotti e attacca drappi biancorossi. «Era per dimostrare che non eravamo tedeschi ma altoatesini. Pensava che così gli americani ci avrebbero lasciati in pace».
AMERICA. La nuova casa degli Springer è nella zona dove l’esercito americano stabilisce il quartier generale. Willy gironzola sempre in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti. Gli Amerikaner lo prendono in simpatia. «Mi regalavano cioccolata, gomme da masticare, roba da mangiare». Se lo portano dietro. «Una volta sono andato con loro fino a Monaco. Hanno caricato camion e camion di viveri e combustibile. Arrivati ad Augusta hanno riempito i magazzini e poi bruciato tutto quello che avanzava. Ai tedeschi non doveva restare niente». Un sergente dei Marine si affeziona. Chiede ai genitori di adottarlo, portarlo negli States e farlo studiare. Maria dice no e lo sbatte fuori di casa. Nel gennaio 1946 il padre viene convocato dalle autorità alleate. Lo mettono di fronte a un bivio: o tornate da dove siete venuti, o vai a processo come nazista. La scelta è obbligata.
Apolidi, senza lavoro, senza casa: non sanno più chi sono. Altadonna? Springer? “Veri” tedeschi? Italiani rinnegati? Inizia il difficile ritorno verso l’Alto Adige. Con una vita da ricostruire.
IL RACCONTO DEL RITORNO IN ALTO ADIGE
LA STORIA DI RUDI ALTADONNA, DALLA HITLERJUGEND ALLA LEGIONE STRANIERA