Darya, vita da badante in duecento fotografie
Ucraina, laureata al Politecnico di Kiev, ex dirigente di fabbrica, a Bolzano dal 2003. La grande fotografa Jane Evelyn Atwood racconta in un libro la sua storia e delle quattro sorelle bolzanine che accudiva
Bolzano. Darya Muzh apre il volume a pagina 117. «Eccoci qua, tutte e cinque. Io, Augusta, Gisella, Elena e Ottilia». La copertina rigida è argento. Titolo: “Darya, histoire d’une badante ukrainienne”. Oltre duecento scatti della fotografa americana Jane Evelyn Atwood. Un reportage realizzato nel 2007 a Bolzano e in Ucraina seguendo il lavoro e la vita di Darya, orgogliosamente badante («è una bellissima parola, significa fare attenzione, prendersi cura di un’altra persona») e orgogliosamente ucraina, in Italia dal 2001. Le foto, oggetto di una mostra al Trevi nel 2008, sono state ora raccolte in una elegante pubblicazione, uscita in Francia e negli Stati Uniti per la casa editrice parigina “Le bec en l’air”.
Orgogliosamente badante
Darya è tutte le donne che arrivano da paesi lontani per accudire i nostri anziani nell’ultimo spicchio della vita. Angeli custodi, che entrano nelle nostre case, ci aiutano ad assistere i genitori o i nonni, quando noi, da soli, non ce la facciamo.
Le foto guardano il mondo dalla loro prospettiva. Ci dicono chi sono. Da dove vengono, che storie hanno, cosa provano. E anche perché sono qui. «Perché, perché - taglia corto Darya -. Perché in Ucraina qualsiasi vita sarebbe stata peggiore. Non dico solo adesso con la guerra. Anche prima. Quando nasci in un paese povero, non puoi permetterti il lusso di sognare: prima devi sopravvivere. Oggi, con Putin, ancora di più». Ai tempi del comunismo le cose avevano un loro ordine, certamente malato, ma era pur sempre un ordine. «Mi sono laureata al Politecnico di Kiev a metà degli anni ’80 - racconta - . Nel 1987 ero direttrice di una fabbrica di mattoni nel mio villaggio, Peremyslovychi, al confine con la Polonia. Avevo cinquantatré operai sotto di me. Cinquantatré, non so se mi spiego, tutti uomini. Li comandavo a bacchetta. Nessuno sgarrava». Ride Darya.
Vodka e margarina
Nel 1989 cade il muro di Berlino, l’onda lunga arriva anche a Peremyslovychi. «Non avevamo più commesse. Nessuno voleva più i nostri mattoni. Nel 1991 la fabbrica ha chiuso, mi sono trovata disoccupata con due bambine da crescere». Il marito Igor per un po’ di tempo si arrangia come camionista, ma poi ammazzano il suo capo e perde il lavoro anche lui. «La situazione era tragica. Il capitalismo se ne frega se non metti insieme il pranzo con la cena». Per qualche anno tirano a campare. «L’unica cosa che non manca era la vodka». Vodka e margarina. Le donne del villaggio si organizzano. Portano la vodka in Polonia sotto le gonne, e la margarina in Lituania sotto il maglione.
«Facevamo scambio con altri prodotti, che poi rivendevamo in Ucraina». Piccoli affari che fruttano poco. «Non potevamo andare avanti così».
Il patto
Lei e Igor si guardano in faccia e fanno un patto. «Uno dei due doveva andar via, all’estero, a tirare su i soldi. L’altro sarebbe stato a casa con le figlie. Abbiamo presentato entrambi domanda d’espatrio. Igor per l’Europa del nord, dove cercavano operai nei porti e nelle fabbriche. Io per l’Italia, dove invece c’era una forte richiesta di badanti, che all’epoca chiamavano colf». Il visto arriva prima a lei. «Era il 2001. Igor è ancora là, in Ucraina, in un paesino che si è ridotto a 150 anime, dove può parlare solo con gli animali e... con le vedove, che sono tante».
Ride di nuovo, Darya. «Tranquillo. Lui parla è basta. È un brav’uomo».
Darya arriva quindi a Piombino, in Toscana, sulla rotta delle badanti dell’Est: 800 euro per un passaggio in macchina più 200 per il visto. Dopo qualche mese, sua cugina la chiama a Bolzano. «Mi ha detto che c’era tanto lavoro, e in effetti è andata bene. Sono ancora qui».
Quattro sorelle
L’esperienza umanamente più intensa comincia nel 2003, quando accudisce quattro sorelle che vivono insieme nel loro appartamento di via Zara. Augusta, la più anziana, 94 anni, è cieca per il glaucoma. Ottilia, 86, ha perso la vista per il diabete, non parla, un ’ernia non la fa camminare. Gisella, 84, ha l’Alzheimer e lotta contro il tumore al seno. Elena, la più giovane, 77, è invalida da quando ne aveva 17, dopo essere stata investita da un’auto. Una grave forma di Parkinson le impedisce di parlare: tiene sempre la bocca spalancata in una perenne O. Quattro donne fragili da tirare su e giù dai letti, pulire, vestire, accompagnare in bagno. Atwood realizza il reportage nel 2007. Passa settimane con loro e, con il consenso della famiglia, documenta tutto.
Darya che cambia i pannoloni. Darya che lava ogni angolo di corpi affidati totalmente a lei. Darya che toglie e mette le dentiere. Che cucina, rassetta, stira, imbocca, pettina, abbraccia, getta nei bidoni decine di sacchi di spazzatura. Darya che a notte fonda prega davanti all’immagine della Madonna e di Gesù Cristo. Prega per Igor, le figlie, l’Ucraina. Prega per Augusta, Gisella, Elena e Ottilia. «Il lavoro iniziava alle 6 del mattino e finiva a tarda sera», ricorda. Sette giorni su sette. Una dedizione che nemmeno un figlio. Un’organizzazione rigorosissima. Darya rinuncia anche alle ore di permesso pomeridiano. «Non mi fidavo a lasciarle ad altri - racconta oggi -. Mi bastava uno sguardo per capire di cosa avessero bisogno. Se non ero lì con loro, non riuscivo a stare tranquilla». Ci vuole fisico, energia, pazienza, coraggio. D’altra parte, una che si è laureata al Politecnico di Kiev e ha diretto una fornace, non si spaventa davanti a niente. «La fatica non mi ha fatto mai paura - minimizza lei - . Non dico sia stata una passeggiata, ma più della fatica, pesa la responsabilità. Sono fragili come porcellane preziose. La loro vita è nelle nostre mani. La badante non può sbagliare e ne è sempre consapevole». Le foto in bianco e nero descrivono la solitudine e la sofferenza della malattia, ma anche l’amore che lega “la badante” alle quattro sorelle. La dedizione che queste donne arrivate da lontano riservano ai nostri cari, rinunciando per anni ai loro affetti, alle famiglie, a una vita propria. Un sacrificio che spesso facciamo finta di non vedere. Augusta, Gisella, Elena e Ottilia non ci sono più, si sono spente una dopo l’altra. «Ho voluto un gran bene a tutte, ma con Elena il rapporto era speciale. Aveva difficoltà di movimento e nel linguaggio, ma capiva tutto. Ci parlavamo con gli occhi e i sorrisi. Eravamo complici».
L’inferno e il paradiso
Sempre nel 2007, Atwood ha accompagnato Darya in un viaggio a casa, in Ucraina, dal marito Igor e dalle figlie Natalya e Mariya, diventate ormai adulte. Una foto la ritrae in lacrime al cimitero sulla tomba della sorella. «La signora Atwood è stata meravigliosa - ricorda -. Pensavo che un’artista di quel livello stesse sulle sue. Invece no, si è messa di lato. Ha osservato, parlato con tutti. Dalle sue foto si vede che ha capito». Una delle figlie è ancora lì, a Peremyslovychi, insieme a papà Igor. L’altra è venuta a vivere in Alto Adige con il marito e i figli. Darya in questo momento è senza lavoro. «Stelio, l’ultimo signore che ho accudito, se ne è andato in novembre. Mi manca molto. Non ci si abitua mai alla morte, alla perdita. Il nostro non è solo “un lavoro”.Le relazioni sono profonde, intime, personali».
Di badanti c’è sempre bisogno, e presto ricomincerà da un’altra parte. «L’altro giorno, durante un colloquio a Merano, una signora mi ha chiesto se avessi nostalgia dell’Ucraina. Le ho risposto di no. Le ho detto che mio genero la mattina alle 6 è già sotto terra a scavare carbone e quando esce al pomeriggio sputa polvere nera. I figli e i mariti delle mie amiche sono al fronte a combattere contro i russi. Chi vuole vivere in un posto del genere? Lo dico sempre a mia figlia: che fate ancora lì? Venite via». Darya e le altre badanti ucraine mandano soldi, vestiti e medicine a chi è rimasto.«Povera terra mia. L’Italia è il paradiso. Ho un lavoro, da mangiare, guadagno il giusto, non ho paura che qualcuno mi spari. Una grande fortuna. Molte di noi non torneranno più indietro, la loro vita ormai è qui». E lei Darya? «Al patronato mi hanno detto di presentarmi il primo aprile 2024. Da quel giorno potrò andare in pensione. Poi sarò libera». E cosa farà? «Io? Torno all’inferno - ride -. A Peremyslovychi, da Igor e sulle tombe dei miei cari. Voglio stare con loro».