Con mia madre in coda per AstraZeneca: “Non ho paura”
Lunedì pomeriggio alla Fiera di Bolzano poco prima della sospensione ordinata dal governo per la fascia 75-79. In un silenzio quasi sacro, la sensazione di essere a una svolta. Genitori accompagnati dai figli e coppie che si vaccinano insieme. È la catena di montaggio della speranza
Bolzano. Numero 302. Mi scendono le lacrime. Giù, sotto gli occhiali e la mascherina. Faccio di tutto per fermarle, le lacrime, ma non riesco. Mi metto dietro di lei, seduta su una sedia di plastica nera mentre aspetta il suo turno. Le accarezzo le spalle.
Tiro un sospiro a trattenere il pianto, non voglio mi veda.
Sento un nodo pesantissimo sciogliersi sulla bocca dello stomaco, una sensazione di tepore. E capisco. Capisco che da un anno ho paura. Ho paura per mia madre, che da mesi non posso baciare e abbracciare. Ho paura che finisca in una terapia intensiva, o che ci possa finire io, o mia moglie, o i miei fratelli, le mie nipoti, i miei amici. Persone a cui volevo bene sono morte di Covid. Capisco che questa paura adesso è alla fine, e, quella sensazione di compressione, di asfissia, di sentirsi in gabbia, è questione di settimane.
Fiera di Bolzano, Centro Vaccini. Lunedì 15 marzo, ore 14. AstraZeneca. Fascia 75-79 anni.
«Hai paura mamma?».
«No, voglio tornare a vivere, finire di essere murata in casa, di stare sola. No, AstraZeneca non mi fa paura».
Ok, andiamo. La linea dei vaccini è una macchina rapida e perfetta. Un giovane alpino accoglie all’entrata del padiglione B. Spiega dove andare: due piani di scale mobili, poi a destra, seguire le freccia. Primo check point: rilevazione della temperatura. Cinque minuti di attesa in fila, mentre - dentro - stanno già vaccinando tipo catena di montaggio.
Temperatura 36.5, avanti.
Un padiglione gigantesco diviso in quattro passaggi: accettazione, anamnesi, vaccini, prenotazione richiamo.
Primo filtro: registrazione. Modulo di prenotazione, tessera sanitaria
«Qualcosa da segnalare signora?».
No, tutto a posto.
«Ecco il suo numero: 302. Passi oltre, si metta comoda e aspetti che compaia sui tabelloni».
File di sedie nere in plastica. Tutto (sedie, corrimano, pavimenti) viene disinfettato in continuazione dagli addetti in tuta blu e dalla pelle nera, della “Meranese servizi”. Un reparto di questo “Esercito del Bene”, di cui spesso ci dimentichiamo. Arriva un altro alpino. Chiede se abbiamo bisogno di qualcosa, se abbiamo capito tutto. Ripete daccapo cosa si deve sapere.
- Tocca a voi quando il vostro numero appare sui display sparsi in tutta la sala.
- Il numero è associato a una lettera dalla H alla Z.
- La lettera indica la postazione dove dovete presentarvi.
- Fate attenzione al segnale acustico, se non vi presentate appare un bollino rosso e perdete il turno.
Ok?
Ok.
C’è una sensazione potente e commovente insieme, in questa sala d’attesa ricavata in un hangar dove uomini e donne aspettano in un silenzio quasi religioso. Qualcuno è accompagnato da figli o nipoti, ma la stragrande maggioranza no. Tante coppie che si vaccinano insieme. Tutti sanno del “casino” AstraZeneca, delle morti sospette, delle trombosi. Eppure niente defezioni. Nessun ripensamento dell’ultimo minuto. Una sana apprensione, mista a fatalismo e a una composta euforia. «Preferisco il rischio infinitesimale di questo vaccino, a quello, reale, di morire o finire intubato con i polmoni a pezzi», dice un noto ex medico di famiglia. Mia madre è concentrata, silenziosa come tutti qui dentro. È del ’42, non ricorda la guerra, ma il dopoguerra sì. Con Bolzano distrutta, un padre sopravvissuto per miracolo, ma anche l’entusiasmo della rinascita. «Ecco - sussurra - sento quella sensazione lì. È un momento storico». Di più: c’è qualcosa di sacro in questo ritorno alla vita.
Il giovane alpino intanto rassicura, fiuta i timorosi, indica la “strada”, controlla i numeri, accompagna.
Display: numero 302, lettera J.
Tocca a noi. Anamnesi.
- Malattie pregresse?
- Allergie?
- Che medicinali prende?
- Signora, oggi le iniettiamo l’AstraZeneca, è d’accordo?
L’uomo dietro il plexiglas lo chiede con il tono di chi è pronto a incassare un rifiuto.
«Assolutamente sì», risponde decisa.
Avanti.
Seconda sala d’aspetto. Stesse sedie in plastica nera. L’ultima linea: il vaccino. Aspettiamo 15 minuti. Mia madre guarda gli altri prima di lei entrare nei box bianchi contrassegnati dalle lettere luminose azzurre. Tutto avviene in modo ordinato. Infermieri e infermiere finito uno, escono a farsi vedere da quello dopo. Sono giovani e pieni d’entusiasmo. Ricordano gli studenti scesi a migliaia a Firenze dopo l’alluvione. Hanno quella luce negli occhi. «Perché qui - dice un’infermiera sui vent’anni - conta solo una cosa: vaccinare, vaccinare, vaccinare. Dare fuoco alle polveri, come ha detto il generale Figliuolo l’altra sera da Fabio Fazio».
Display: 302 W. Ci siamo.
Il paramedico, un militare dell’Esercito in mimetica e grembiule verde, ci aspetta sulla soglia. È gentile, premuroso.
- Braccio preferito, signora? Laccio emostatico, fiala, siringa, braccio destro. Fatta. Sessanta secondi a farla grossa. Indica la terza sala d’attesa. «Adesso, signora, aspetti lì 15 minuti, poi, se non sente niente di strano o anomalo, può andare».
Avanti un altro.
Usciamo dal box con la sensazione di aver saltato un fosso. Come quando hai dato un esame che preparavi da mesi. Liberi, e anche un po’ orgogliosi. Sono le 14.53. Adesso lei parla a macchinetta come non la sentivo da mesi. Le hanno già fissato la seconda dose ai primi di giugno. “Mamma, quest’estate te ne vai al mare”. La sera la chiamo per vedere se tutto è a posto. Nel pomeriggio hanno sospeso AstraZeneca in sei paesi europei, Italia compresa, Bolzano compresa.
Lei sa giù tutto.
«Ma sai - dice sollevata- sono contenta di essere riuscita a farlo un momento prima»..