LA STORIA

Bolzano, l'uomo che mette un angelo in ogni mano che incontra 

Ricoverato  a Natale all'Ospedale San Maurizio, Michele Coviello, 83 anni,  ha donato decine di statuette fatte da lui. E' arrivato a Bolzano a 15 anni nel 1950: "Ero scalzo e mi chiamavano terrone".  Ha lavorato tutta la vita come marmista. Una storia di emigrazione, razzismo, lotta e riscatto


di Luca Fregona


BOLZANO. Passare le feste di Natale in ospedale non è il massimo. Michele Coviello tra un mese fa 83 anni. Un paio di giorni prima della Vigilia l’hanno ricoverato al San Maurizio per un problema alle vene. Settimo piano, in Medicina. Roba da deprimere anche un santo. Non lui. Ha chiamato la figlia Lina: «Portami gli angioletti, tutti quelli che trovi. Rovista armadi e cassetti. E mi raccomando, anche le madonnine e Gesù ...».

Angioletti in gesso, colorati di bronzo, fatti con le sue mani uno a uno. Li ha messi sul davanzale accanto al letto. Poi, dalla Vigilia a Santo Stefano li ha regalati ai pazienti, alle infermiere, agli inservienti, alle donne delle pulizie... A chiunque incontrasse nei reparti semivuoti per le feste. Pigiama blu, capelli candidi come la neve, sorriso largo. Michele ti mette l’angelo sul palmo della mano e poi te la chiude a riccio, a proteggerlo. «Lo sento dentro - spiega -. Ce l’ho nel sangue. È un dono del signore. Un modo per ringraziare tutte queste persone meravigliose che si prendono cura di noi».

Michele Coviello è un vecchio maestro artigiano. “Marmista” puntualizza con orgoglio. I marmisti sono gente particolare. Adorano la pietra, l’accarezzano, le parlano. Sono operai ma anche artisti. Conoscono la fatica ma anche la bellezza. La polvere e la perfezione.

La sua è una storia dura. Di emigrazione, razzismo, lotta e riscatto.

È nato a Trentola Ducenta, in provincia di Caserta. Tredici fratelli, orfano di padre a 3 anni, di madre a 11. Cresciuto dalle sorelle maggiori. A 15 anni lo mettono su un carro trainato da un cavallo.

«Michele - gli dicono - oggi parti, te ne vai al Nord, qui c’è solo fame». Lo racconta nella Sala tv del Reparto 63 anni dopo. E gli scende l’unica lacrima che si concede. «Ero un bambino, non avevo niente. Mi vedo ancora oggi: le gambe a penzoloni dal cassone, il paese che si allontana e scompare all’orizzonte... E io che piango, piango, piango. Quando sono arrivato in stazione a Napoli avevo i pantaloni zuppi. Erano fradici di lacrime».

Sale su un treno destinazione Bolzano, dove vivevano una sorella e il marito. «Sono arrivato qui il primo aprile del 1950, manco fosse uno scherzo...».

Ha un solo paio di scarpe. Sono praticamente senza suola. Poggia a terra con i calzini, la tomaia è consunta. Oltre che le uniche, sono pure quelle “buone”. Il giorno dopo, quando va a cercare lavoro tra le stradine delle Semirurali, è scalzo. Magro come una acciuga. Un solo paio di pantaloni. Una sola camicia. «Mi avevano detto di provare in una segheria dove facevano cassette per la frutta. Era alla fine di via Milano all’incrocio con via Belluno». Michele si presenta al titolare, un tipo burbero che faceva paura. «Hai un lavoro per me?», chiede sfacciato.

La risposta è secca: «Vattene, non ho bisogno di nessuno, io».

Ma Michele non se ne va.

«C’erano quattro donne che stavano montando le cassette», ricorda. Le quattro figlie del padrone. La prima gli indica una catasta: «Bambino, passami quelle stecche». Michele obbedisce. La seconda: «Portami quelle più corte». E lui gliele porta. Poi la terza: «Ho bisogno dei triangoli». E lui porta i triangoli. Prima che apra bocca la quarta, arriva il padrone. Lo guarda fisso in faccia: «Resta qua», dice. A fine giornata la moglie lo prende da parte. «Le facevo pena», ricorda commosso. Gli mostra la casa accanto al deposito.

«Domani mattina, prima di lavorare bussa a quella porta. Hai capito?».

Michele fa sì con la testa.

Il giorno dopo si presenta puntuale. «Sul tavolo - ricorda - trovo una ciotola di latte caldo fumante e un panino così soffice e buono che non l’avevo mai visto né mangiato in vita mia. Mi sembrava di stare in paradiso. Non sai quanto ho ringraziato quella donna. Molti anni dopo l’ho cercata a lungo per sdebitarmi, ma nessuno ne sapeva più niente. La ricordo sempre nelle mie preghiere».

Nella segheria Michele fa il “ragazzo spazzola”, porta la legna nelle case. «Mi prendevano continuamente in giro perché ero scalzo». Un giorno, un signore lo umilia davanti a tutti. «Guarda quello, porta le scarpe che gli ha fatto sua mamma!».

Brucia ancora oggi. «È un’offesa che non finisce mai», ringhia. È il marchio della povertà. L’umiliazione e l’impotenza sono così forti, che con i primi soldi si compra un paio di scarpe vere. «In via Roma c’era un negozio che aveva prezzi buoni. Le ho prese bellissime, da gran signori, con la punta davanti. Ma ci ho messo un po’ ad abituarmi a camminare con le suole sotto, intendo».

Michele è un gran lavoratore. Passano pochi mesi e viene preso come “bocia malta”. Manovale aiutante nei cantieri delle Case Lancia di via Resia. Lo mettono a fianco di un piastrellista e in un battibaleno impara a posare pavimenti. «Lui era un artigiano, e lì ho capito che era quello che volevo fare». Il ragazzo è in gamba. Michele viene “dato in prestito” di cantiere in cantiere, da ditta a ditta. «Hai presente le facciate in pietra delle case di via Parma? Quelle pietre le ho messe io. Quando passo di là, le guardo e controllo. E mi faccio i complimenti. Sono ancora tutte lì dal 1959. Non se ne è spostata una...».

A un certo punto si stufa di stare sotto padrone, trattato come un pacco da chi smista muratori e operai. «Mi sono liberato. Potevo farcela da solo, mi sono messo in proprio».

Frequenta il corso di tecnico edile, prende l’attestato con lode e inizia l’attività di marmista. Per anni ha il laboratorio in zona industriale, vicino a Ponte Roma. «Prevalentemente lapidi, ma non solo». Realizza, ad esempio, la fontana di Salorno. Quarant’anni fa, quello che definisce il suo capolavoro: il battistero della Chiesa di San Paolo ad Aslago. Lo fa gratis, il sabato e la domenica. E’ la sua parrocchia. La figlia Lina ci insegna il catechismo ai bambini. «Il prete, don Paolo, lo voleva tutto a spigoli. Mi ha dato un disegno impossibile. Ma io l’ho fatto come chiesto. Preciso. A mie spese. Sotto la fontana battesimale ho infilato una busta col mio nome. Quando tra 100 anni si romperà qualcosa, si saprà che è stato Michele Coviello a costruirla».

Ripete due volte “tra cent’anni”, come dire: durerà per sempre. Come le pietre di via Parma. Il giorno dell’inaugurazione, don Paolo lo ringrazia dal pulpito. La gente applaude. «Ma io mi sono vergognato. Non sono abituato a certe cose...».

Dopo 50 anni di lavoro, a metterlo in pensione è la salute. Il cuore non gli sta più dietro. Chiude l’attività, inizia a scolpire solo per passione. Solo immagini sacre. Gesù incastonato nel marmo, riproduce la Pietà di Michelangelo. Prima però, come dice lui, chiede “il permesso”. A Dio.

«Gli ho detto: Signore, ti prometto che non farò mai e poi mai nulla per soldi. Non mi farò mai pagare, ma non fermare le mie mani». E così è stato. Dopo qualche anno vende il laboratorio e le frese per il marmo, ma si arrangia in casa. Fa gli stampi, poi ci mette il gesso mischiato ad acqua e sabbia. E il colore passato a mano quando sono asciutti. Nascono gli “angioletti”. Michele ne fa centinaia ogni anno. Dieci al giorno ogni giorno. E li regala tutti. «È il mio modo di dire grazie. Con la vecchiaia devi affidarti agli altri. Ci sono tante persone buone che ci aiutano. Dovevo fare qualcosa per loro».

Li porta al Centro anziani di Oltrisarco, alla mensa Terza Età, alle ragazze dei distretti “che ci seguono, ci accudiscono, risolvono ogni problema”. Mette un angelo in ogni mano che incontra. «Vi ha mandato il signore», dice riconoscente. Li regala ai nonni e alle nonne come lui, e ogni volta lo ringraziano commossi. «E lì si riaccende il mio vecchio cuore malato. Ho fatto una cosa che porta gioia...».

La Sala Tv di Medicina è in silenzio. Tutti ascoltano la storia. Michele indica un titolo sul giornale. L’ennesimo carico di migranti bloccati da Salvini in mare. «Era di domenica - riprende assorto -, ero appena arrivato a Bolzano. Dei ragazzi giocavano a pallone in strada. Mi sono avvicinato...».

“Cosa vuoi terrone? Vattene via da qui terrone. Noi non li vogliamo i terroni come te”.

«Sono scappato tra le lacrime. Ma la rabbia è diventata forza. Sì, sono terrone tre volte e ti faccio vedere io. Ho lavorato come un mulo. Giorno e notte. Sono convinto, anzi sicuro, di aver fatto molta più strada di chi mi insultava».

E sarà il buon Dio, alla fine, a fare i conti.

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