Spunta il motore nella bici. Pontoni: «Tutti sapevano»
In Belgio ai Mondiali è emerso il primo caso di “doping tecnologico” L’ex campione: «Qusti motorini esistono. Nessuno voleva uscisse questa verità»
TRENTO. Di dubbi ne erano stati sollevati a più riprese. Nello scorso weekend ai Mondiali di ciclocross di Zolder il dubbio è diventato certezza, che va ad alimentare i sospetti anche in merito a certe chiacchierate prestazioni nel mondo del ciclismo su strada. Nella gara femminile under 23 della rassegna iridata belga è stato riscontrato il primo caso di “doping tecnologico”, con gli ispettori dell’Uci che hanno trovato un marchingegno irregolare nella bicicletta della diciannovenne Femke Van Den Driessche, campionessa europea categoria Women Youth in carica.
Gli ispettori incaricati dei controlli hanno visionato le biciclette prima del via e hanno poi accertato il tentativo di «frode tecnologica», con la giovane atleta belga che, secondo le nuove norme introdotte nel 2015 nel regolamento della Federciclismo internazionale, rischia una squalifica di almeno di sei mesi e una multa che può variare dai 19 mila ai 192 mila euro, senza dimenticare le sanzioni in cui potrebbe incorrere la squadra di appartenenza. La Van Den Driessche non ha nemmeno tagliato il traguardo e, a dire il vero, non ha nemmeno utilizzato la bicicletta incriminata, rimasta ferma ai box.
La notizia ha creato, però, le comprensibili reazioni nell’ambiente del ciclocross e, a tal proposito, abbiamo interpellato l’ex campione del mondo della specialità, ora direttore tecnico della Trentino Cross-Selle Smp, Daniele Pontoni. «Una ragazza di 19 anni non può aver fatto tutto da sola – esordisce Pontoni, che nella stagione in corso ha potuto festeggiare con la squadra la vittoria a squadre al Giro d’Italia Ciclocross e al Trofeo Triveneto, due maglie tricolori, due maglie rosa e ben 35 vittorie in totale -. Secondo me, tutti sapevano dell’esistenza di questi marchingegni, ma nessuno voleva che uscisse questa verità. Mi auguro comunque che si tratti di una piccola parentesi, che si apre e si chiude. Il ciclocross è un mondo troppo piccolo e povero per avere interessi, eccezion fatta per Olanda e Belgio, dove fatalmente è stato riscontrato il primo caso di “doping tecnologico”.
Queste notizie fanno male a chi ne è vittima e al nostro sport, ma soprattutto alla nazione in cui è successo. Il fatto che venga pescata in fallo una atleta belga durante un Mondiale in Belgio potrebbe non essere casuale: o si trattava di un avviso o si voleva colpire in un momento in cui la notizia avrebbe avuto una notevole cassa di risonanza». Nel vostro ambiente si parlava e si parla di questa forma di “doping”? «I dubbi ci sono sempre stati – prosegue Pontoni – e ora, con il senno di poi, tutti sapevano. Se ne parla da almeno 5 anni. Bisogna capire chi realmente c'era dietro a questi interessi, premesso che un Mondiale rappresenta di per sé un motivo di interesse. Il paradosso è che la bicicletta non è nemmeno stata usata». Pontoni lo reputa comunque un caso isolato. «Il ciclocross è uno sport per chi è abituato a fare fatica – continua l'ex iridato friulano -. La domenica si va a prendere freddo, a correre nel fango: se ti piace, arrivi con le tue forze fino a dove puoi arrivare. Per questo vedo l’episodio come estemporaneo, strano in un ambiente come il nostro, che è per natura genuino. I nostri atleti corrono 40 minuti, ma stanno fuori tutta la giornata, dalle 6 del mattino alle 19. È anche una festa: noi la viviamo così».
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