Inzaghi e Ibra, le leggende del calcio si raccontano al Festival dello Sport
Numerosi gli incontri dedicati al mondo del pallone, visto anche da una prospettiva diversa grazie alla testimonianza della presidente della FIGC femminile Federica Cappelletti
TRENTO. La doppietta nella finale di Atene, la rete messa a segno al mondiale in Germania, oltre 300 gol segnati in una carriera dove ha vinto tutto quello che poteva vincere, ma quelli più importanti per Filippo Inzaghi sono stati i gol dei preliminari di Champions League nel 2006 contro la Stella Rossa.
L’ex attaccante di Milan e nazionale ha scelto il Festival dello Sport per presentare il suo ultimo libro intitolato “Il momento giusto”, chiaro riferimento alla sua capacità di scegliere l’istante esatto per eludere il fuorigioco avversario e presentarsi solo davanti al portiere.
Il marchio di fabbrica della punta piacentina era proprio la capacità di farsi sempre trovare pronto al momento giusto, e nell’auditorium Santa Chiara ha spiegato cosa lo ha portato così in alto. “Penso che sia stata premiata la mia forza di volontà, la determinazione di aver dato il massimo sempre, in ogni momento, di aver fatto tutto quello che era in mio possesso per raggiungere il mio sogno. Non avevo il fisico di Ibrahimovic e la tecnica di Ronaldinho ma i miei record nascono perché ho sempre dato tutto me stesso: dal mangiare bene al riposare il giusto, poi sono stato fortunato perché fino a 30 anni non ho avuto infortuni che hanno limitato la mia carriera. Ci sono stati momenti difficili perché nei primi anni 2000 sono andato ad Anversa da solo, nel frattempo era arrivato Crespo e sono stato fuori un anno. La cosa si è ripetuta qualche anno più tardi contro il Palermo quando mi sono rotto il crociato. Potevo mollare, ma pensavo di poter farcela a tornare ancora una volta e così è stato".
Una carriera dominata dalla passione e dall'impegno costante, tutte cose che lo accompagnano ancora oggi in veste di allenatore e che "Pippo” prova a trasmettere ai suoi giocatori.
Presente anche Zlatan Ibrahimovic, campione svedese accolto da molti tifosi con la maglia rossonera. Nell’incontro al Teatro Sociale, ha raccontato sé stesso. "Da bambino mi dicevano che non ero un talento e non sapevo giocare, ma il calcio per me era pura adrenalina - ha affermato – si può portare il ragazzo fuori dal ghetto, ma non il ghetto fuori dal ragazzo. L'identità di una persona, come il luogo in cui si cresce, resterà per sempre. La prima esperienza all'Ajax? Mi hanno paragonato a Van Basten fin dall'inizio, non è stato semplice per me e in alcuni momenti ho pensato di tornare a casa. Tutti si aspettavano che facessi subito le magie".
Poi il passaggio alla Juventus e successivamente all'Inter, dove Ibrahimovic si è laureato campione d'Italia. "Quanti sono gli scudetti vinti dai bianconeri? Trentotto. Abbiamo lottato ogni giorno per vincere, dimostrando di essere i più forti. Poi quando sono arrivato all'Inter credo che ero vicino al mio massimo".
Per Ibrahimovic è stato poi il momento del Barcellona: "Tutti sognavano di giocare in quella squadra. Se mi guardo indietro, credo che fosse la migliore per vincere la Champions League. Ricordo la partita con l'Inter, all'andata perdemmo 3 a 1. Ma se ci fosse stato il Var…". L'aneddoto più simpatico è stato sicuramente quello del passaggio al Milan: "Galliani venne a casa mia, si sedette e aspettò finché non gli dissi di sì. Dopo aver accettato siamo andati a cena e la carta di credito del Milan non funzionava. Ridendo, ho pensato: caspita è già finito tutto".
Al Paris Saint Germain però Ibrahimovic non ci voleva andare: "È successo tutto velocemente, non volevo muovermi dal Milan, stavo bene. Poi non ero convinto nemmeno della Premier League, ma dopo qualche mese al Manchester United erano diventati tutti miei fan". Lo scudetto più bello però resta l'ultimo con il Milan: "Una squadra senza superstar, dove non ci si aspettava la vittoria, diversamente rispetto a quanto successo nelle altre squadre in cui ho giocato. Si è formato un gruppo che non avevo mai visto, ognuno ha fatto crescere gli altri".
Ma si è parlato anche di calcio femminile questo pomeriggio al Festival dello Sport. Una pratica che non rappresenta una novità per l'Italia - dato che la sua nascita risale al 1933, come è stato ricordato dalla presidente della Divisione di calcio femminile della FIGC Federica Cappelletti - ma che punta a crescere e svilupparsi sempre di più, dopo lo spartiacque rappresentato dall'ingresso nel professionismo nel 2022.
A portare la loro testimonianza, oltre alla stessa Cappelletti, moglie del compianto campione del mondo Paolo Rossi, due calciatrici del Milan e della Nazionale femminile, Valentina Bergamaschi e Angelica Soffia, accompagnate dal loro commissario tecnico Andrea Soncin.
"A livello culturale bisogna fare uno switch: è calcio, non maschile e femminile", ha esordito Soncin, che ha intenzione di raccogliere soprattutto il lavoro dei club, guardando al contempo all'esempio della Spagna, capace di investire molto in infrastrutture e formazione. "Quello a cui puntiamo non è il risultato - continua il c.t. - ma le emozioni che vengono regalate ai fan". "Fino a qualche anno fa era un mondo solo maschile - ammette Cappelletti - ma abbiamo avviato un percorso che porterà ad una crescita sempre più veloce e visibile, abbiamo già fatto molti passi avanti. Serve un cambiamento ideologico, che parta dalla società e arrivi al pubblico e ai fruitori. Devo dire che in Italia i club stanno investo molto e con lungimiranza".