Tre giovani bosniaci trattati come schiavi
Lavoravano per un’azienda agricola di Levico. Dormivano in roulotte fatiscenti, senza acqua, una doccia la settimana, pagati 4,50 euro l’ora
TRENTO. Arrivati in Trentino convinti di poter guadagnare a sufficienza per aiutare le famiglie in Bosnia in grave difficoltà, si sono trovati a vivere alla stregua di schiavi. È la storia di tre ragazzi (il più “vecchio” ha oggi 35 anni, ma quando è arrivato in Trentino ne aveva 25) degna di tutt’altre latitudini. Eppure è successa nelle campagne trentine, in quel di Levico Terme. Il più anziano per nove lunghi anni, gli altri due per 5 e 3 anni, sono stati costretti a vivere in roulotte fatiscenti, sporche, che si trasformavano in forni l’estate e in ghiacciaie l’inverno, senza l’acqua corrente. Ma nemmeno lavarsi di frequente era consentito: il datore di lavoro rifiutava loro l’acqua e permetteva di farsi la doccia solo una volta la settimana.
A raccontare questi agghiaccianti particolari, il segretario della Fai Cisl Fulvio Bastiani e la collaboratrice Katia Negri, che ha tenuto i contatti con i ragazzi sfruttati, costretti a lavorare oltre 270 ore al mese, ma ne risultavano 39, giorni festivi e straordinari compresi, per la paga di 4,50 euro all’ora, mentre il minimo sindacale sarebbe di 7,77 euro l’ora. Ma il datore di lavoro non dichiarava nemmeno tutto il monte ore: uno dei ragazzi nel 2016 era arrivato a lavorare 2.293 totali, ore lavorate in gran parte in nero. Alla Coldiretti, il padrone aveva dichiarato 416 ore lavorate, così da evitare di pagare anche i contributi. Ci si chiede come possa essere successo in Trentino, che si vanta sempre di essere terra di politiche sociali avanzate e di rispetto delle leggi sul lavoro. Risponde il segretario Fai Cisl Bastiani: «I ragazzi provengono da una situazione disagiata. Uno di loro ha anche i genitori disabili. Per questo puntavano a lavorare in quello che si ritiene un Paese civile, per poter aiutare le famiglie. Quando li abbiamo contattati, abbiamo capito che oltre alla situazione materiale di estrema privazione, erano anche isolati. Per questo, nonostante venissero a lavorare da febbraio a novembre come raccoglitori di ortaggi e frutta, sapevano esprimersi con molta difficoltà in italiano. L’azienda in questione si trova nel Comune di Levico Terme ed il datore aveva indicato come loro residenza, obbligatoria per avere il permesso, un appartamento a Pergine. Casa che i giovani non hanno mai visto». Bastiani aggiunge che non è stato facile convincere i tre raccoglitori a denunciare la situazione in cui erano costretti a vivere.
«Da una parte avevano bisogno di lavorare - racconta il sindacalista - dall’altra vivevano un tale stato di isolamento, ai margini del bosco, che non li consentiva di rendersi conto dello sfruttamento a cui erano sottoposti. Noi siamo venuti a conoscere la situazione attraverso un loro connazionale che ci ha contattato. Ma non è stato facile convincerli a collaborare per denunciare lo stato di sfruttamento. Anzi, loro tutti gli anni tornavano a casa i mesi d’inverno, per poi ricominciare il lavoro da febbraio a novembre. A giugno quando ci hanno dato il via libera, attraverso lo studio legale abbiamo raccolto la documentazione, loro avevano già deciso di trovare lavoro in un altro Paese». La denuncia al Servizio del lavoro è stata presentata ieri ed ora si dovrà quantificare quanto spetta ai tre lavoratori di salario non corrisposto. Ma anche l’Inps potrà rivalersi contro l’azienda che non ha pagato i contributi dovuti, visto che lavorando 156 giornate si ha diritto ai contributi per tutto l’anno.
«Quello che non si potrà monetizzare - commenta Bastiani - è la condizione psicologica a cui sono stati sottoposti i giovani, che forse non avevano alternativa perché erano l’unica opportunità per fare quadrare il bilancio familiare. Ci ha colpito molto questa storia, perché dimostra come anche il Trentino non è immune dallo sfruttamento brutale di lavoratori stagionali. Preciso che la Coldiretti, contattata l’11 gennaio, ha preso subito le distanze e non darà supporto al datore di lavoro che si è comportato in questo modo. È da parecchi anni che lavoro in sindacato, e da cinque anni sono il segretario della Fai, ma confesso che non avevamo mai visto niente di simile. Ci siamo vergognati di essere trentini. Si tratta di una caso limite e limitato, per quanto ne sappiamo ma abbiamo voluto dare massima pubblicità, perché non si ripetano esodi simili».