Stava, un dolore lungo 25 anniQuei 6 minuti d'inferno sul Trentino

Il 19 luglio 1985 una massa di 180 mila metri cubi si fango si abbattè su Tesero in Val di Fiemme provocando la morte di 268 persone, compresi molti turisti ospiti degli alberghi della zona. L'inchiesta e il processo stabilirono le responsabilità penali di chi doveva effettuare le manutenzioni e i controlli nei bacini di decantazione della miniera di fluorite di Prestavel


Mauro Lando


TRENTO. Che effetto provoca una massa di 180 mila metri cubi di fango, sommati a 40-50 mila metri cubi di erosione della montagna e di detriti di edifici, e a centinaia di alberi sradicati, in sei minuti lungo una valletta a 90 chilometri orari?

Provoca la morte di 268 persone morte, 53 case di abitazione spazzate via, 3 alberghi distrutti, 6 capannoni svaniti, 8 ponti demoliti e altri 9 edifici praticamente demoliti. In aggiunta uno strato di fango tra 20 e 40 centimetri spalmato su un’area di 435 mila metri quadrati.

In queste cifre è racchiusa la strage di Stava avvenuta alle ore 12,22 minuti e 55 secondi del 19 luglio 1985 a monte di Tesero in valle di Fiemme. Sono trascorsi 25 anni da quella tragica estate e da oggi cominceranno le celebrazioni per non dimenticare una strage provocata dall'incuria e dall'abbandono.

La causa della frana fu la caduta dei bacini di decantazione della miniera di fluorite a Prestavel nella parte alta della valle del rio Stava. Perché sono caduti? «Per il completo disinteresse», scrissero i giudici del Tribunale di Trento, di chi doveva provvedere, ma anche di chi doveva controllare.

Controllare cosa? Che il sistema di decantazione della miniera fosse particolarmente solido, posto com’era a monte di una valletta turistica piena di prati e di boschi, uno dei luoghi da cartolina delle montagne della valle di Fiemme.

Era un venerdì quel 19 luglio e poco dopo mezzogiorno, come si usa nelle zone alpine, le famiglie erano riunite nelle case per il pranzo, ma anche nelle ville dei turisti e negli alberghi (“Erica” con 45 ospiti, “Genzianella Miramonti” affittato alle Acli di Milano con 54 e “Stava” con 38). Tutti quegli edifici vennero spazzati via ed i corpi, maciullati, furono rinvenuti nel fango in larga parte in fondo alla valle in località Lago. Proprio l’ora di pranzo fu la circostanza che aggravò il bilancio delle vittime, senza con questo nulla togliere alla assoluta drammaticità del fatto.

La corsa della colata di fango durò quindi sei minuti e le “macchine” registrarono il dramma: a Castello Tesino il sismografo della stazione dall’Istituto nazionale di geofisica tracciò una vibrazione della durata di sei minuti e 40 secondi. Fu quello il segno scientifico di quanto accaduto. Il segno umano furono i corpi, o parti di essi, che affioravano dal fango quando, subito, si cominciò a scavare. Funzionò la protezione civile trentina con i pompieri e i volontari immediatamente all’opera, ma anche la protezione civile nazionale, allora guidata da Giuseppe Zamberletti, che nel giro di poche ore mandò a Stava i militari. Tutti quanti lavorarono per settimane senza risparmiarsi.

Il giorno dopo, all’alba, si gridò al miracolo: sepolta nel fango, ma viva, venne trovata una donna di 24 anni di Cagliari che lavorava all’albergo Miramonti. Ringraziò con lo sguardo e cadde in coma: all’ospedale Santa Chiara di Trento morì dieci giorni dopo. Troppo gravi erano le sue lesioni interne e le fratture. Fu comunque l’unica persona estratta viva dal fango.

I cadaveri intanto venivano portati nella palestra di Tesero per il riconoscimento e poi trasportati in un magazzino di Ora. Al portone della palestra venne affisso un foglio bianco con carta intestata del Comune: a mano a mano che si riconoscevano le vittime i loro nomi venivano scritti col pennarello. Fu l’elenco dello strazio.

Arrivò la domenica e nella chiesa di Tesero il cardinale di Milano Carlo Maria Martini e l’arcivescovo di Trento Alessandro Maria Gottardi concelebrarono la Messa alla presenza del presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Monsignor Gottardi nell’omelia commentò tra l’altro che «verità e giustizia sono invocate da questo torrente di sangue perché mai più, per nessun motivo, l’uomo risulti comunque vittima dell’uomo».

Dopo lo strazio ed i funerali entrò in gioco la magistratura che in realtà aveva cominciato ad operare immediatamente. Le indagini avviate dal procuratore della Repubblica di Trento Francesco Simeoni e dal giudice istruttore Carlo Ancona non furono facili e fecero i conti con l’inevitabile intreccio di perizie. Si riuscì comunque a completarle in tempi ragionevoli, così che tre anni dopo, il 6 aprile 1988, si aprì il primo processo per il disastro di Stava, con dodici imputati tra amministratori delle società che via via erano state titolari della miniera, direttori dell’impianto, tecnici e responsabili del Distretto minerario e di servizi provinciali.

La sentenza di primo grado arrivò l’8 luglio 1988 con dieci condanne ad un massimo di cinque anni di carcere e due assoluzioni, in più la condanna al risarcimento delle vittime e delle parti civili comminata alla Provincia ed alle società Montedison, Imeg, Snam, Prealpi. Seguì l’appello, il ricorso in Cassazione ed un rinvio alla Corte di appello di Venezia finché nel giugno 1992, a sette anni dalla tragedia della val di Fiemme, si chiuse la vicenda giudiziaria con l’individuazione delle responsabilità.

Nessun imputato, salvo che nella fase di primo avvio delle indagini, fece un giorno di carcere, ma in compenso la magistratura riuscì ad arrivare fino in fondo nell’individuazione delle responsabilità con sentenze definitive ed in tempi ragionevolmente brevi.

Le responsabilità individuate furono sia quelle dei responsabili della costruzione e gestione del bacino superiore di Prestavel che crollò per primo, ovvero i direttori della miniera e alcuni responsabili delle società proprietarie, sia dei responsabili del Distretto minerario della Provincia che omisero i controlli sulle discariche.

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