«Siamo suore di clausura ma il lockdown  è stato faticoso» 

Tra le Clarisse di San Damiano. Suor Chiara Costanza e suor Chiara Angelica: «Dicendo sì alla nostra vocazione è nata una grande pace, una grande gioia. Non siamo “ergastolane di Dio”, ma abbiamo scelto una  vita contemplativa. Il Covid ci ha mostrato il bisogno di Dio nel mondo»


Alberto Folgheraiter


Trento. C’è un confine invisibile tra medioevo e modernità. Tra il mondo di fuori e un mondo dello spirito, oltre la grata di ferro che attraversa e divide il parlatorio di un monastero. Il segno visibile di una clausura che si perpetua da più di otto secoli, da quando cioè Chiara d’Assisi fondò l’ordine femminile delle “sorelle povere”, chiamate in seguito “Clarisse”. Nel mondo, le monache dedite alla “vita contemplativa”, cioè in clausura, sono 37.970. In Trentino meno di venti, in tre monasteri: a Borgo, Tonadico e Arco. “Sia lodato Gesù Cristo” disse una vocina che usciva dal citofono del monastero di San Damiano, a Borgo Valsugana. Preso alla sprovvista, il cronista si trovò a rispondere come sessant’anni prima, quando faceva il chierichetto: “Sempre sia lodato”. Formula magica per aprire la porta di un mondo sconosciuto ai più.

In clausura per scelta

Il calendario dei giorni e delle stagioni è sospeso in cima alla salita di 66 gradini, sull’erta del fu convento francescano che da più di quattro secoli domina il Borgo di Valsugana. Da 36 anni ha cambiato destinazione d’uso. Quando cioè i frati francescani, prima di abbandonare definitivamente il Borgo, si trasferirono in un piccolo caseggiato accanto, dandone uso a quattro monache. Arrivate da Assisi il 25 agosto 1984 per spalancare le finestre e chiudersi in clausura. Oltre la grata di ferro. Oltre la soglia del tempo visibile.

Il ritorno delle Clarisse

Le Clarisse tornavano in Trentino duecento anni dopo la soppressione dei monasteri che le aveva viste protagoniste della vita religiosa di questa comunità fin dal 1227 quando alcune di loro, dirette a Praga, si fermarono nel monastero di S. Apollinare a Piedicastello di Trento. Dal 1229 al 1810 vissero nel monastero di S. Michele, fuori le mura cittadine, soppresso da Napoleone il 4 ottobre 1810 per farne l’ospedale che prese il nome di S. Chiara. Altri monasteri di Clarisse furono attivi a Trento (S. Trinità, 1533-1784), oggi sede del liceo “Prati”; a Rovereto (S. Carlo, 1646-1782); a Borgo Valsugana (S. Anna, 1673-1782). E se tutti gli ordini religiosi oggi levano alti lai per mancanza di rincalzi (nel mese di agosto sono state annunciate le chiusure dei conventi francescani di Cavalese e di Cles), le monache Clarisse, arrivate in quattro, sono diventate undici. Sono dieci “professe”, hanno pronunciato i voti solenni, e una “postulante”, una giovane donna che prova, per uno o due anni, se la vita di clausura fa per lei. Sono tutte diplomate o laureate. Sette di costoro sono trentine. Quando abbiamo chiesto di incontrarle, la comunità monastica ha delegato due fra le prime monache arrivate.

Le due monache delegate

Suor Chiara Costanza, 63 anni, oriunda di Anagni, è entrata in monastero a 25 anni, dopo aver fatto l’insegnante nella scuola dell’obbligo. Galeotta fu una gita scolastica in Umbria e l’incontro con le monache del Protomonastero di Assisi. Suor Chiara Angelica, torinese di origine veneta, dopo aver tenuto la contabilità di un’azienda per qualche anno, è entrata in monastero appena passati vent’anni. La grata che le divide dal cronista non nasconde un sorriso disarmante che toglie pepe alle domande e rende le risposte soffici come le beatitudini. Perché hanno deciso di entrare in convento, e soprattutto perché un monastero di clausura? Pur ammettendo che è sempre difficile spiegare le ragioni di una scelta tanto radicale quanto definitiva, suor Chiara Costanza risponde che «per me è stato un dono del Signore. L’aver capito cioè che la mia vita apparteneva a Lui. E per arrivare a questo ci sono state persone che mi hanno accompagnato. Prima di tutto la mia famiglia».

Suor Chiara Angelica: «Per me è stato rispondere a domande che avevo dentro e che, nel corso della vita, si sono intrecciate con luoghi, persone, eventi. Il primo “sì” l’ho detto a 16 anni e da lì sono arrivati tutti gli altri “sì” verso la vita contemplativa». Come si spiega la scelta di diventare “ergastolane di Dio”? «Non siamo “ergastolane di Dio”, siamo monache di vita contemplativa. Difficile dare spiegazioni razionali, è un po’ come quando due persone si innamorano. Non c’è un perché, è così, stanno bene insieme. Per noi la spiegazione si trova nel Vangelo: Gesù ha vissuto 33 anni nel nascondimento. E poi, dicendo sì a questa vocazione, è nata una grande pace, una grande gioia». Chiara Costanza: «È stata la vita a portami a questa scelta. Ricordo di aver incontrato un clochard alla stazione Termini di Roma. Avevo un panino, glielo ho dato. E quando, stupito, mi ha chiesto il perché di quel gesto, senza pensarci ho risposto: perché ti voglio bene».

Le monache di San Damiano, a Borgo, vivono di “Provvidenza”. Dell’aiuto di chi lascia alla ruota del monastero generi di prima necessità o un’offerta di denaro. Altre buste, talvolta anonime, scivolano nell’urna in fondo alla chiesa annessa al monastero. Contengono richieste di orazioni per difficoltà di vita, per una malattia con esiti di morte. La tecnologia non sa dare risposte a tutto, anzi pare aumentare la domanda di senso. Dal materiale all’impalpabile, dalle certezze ai dubbi. Le monache di clausura, che cominciano a pregare alle cinque di mattina e vanno avanti tutto il giorno, sia pure con pause di lavoro, si pongono come una ciambella nella disperazione della vita. «La maggior parte delle ore della giornata la dedichiamo alla preghiera. Poi c’è il momento della fraternità perché noi siamo sorelle che vivono insieme. Inoltre, ognuna di noi svolge piccoli lavori». «Chiara d’Assisi ha lasciato tutto, si è chiusa tra quattro mura, e da lì, attraverso la preghiera è riuscita ad arrivare a tutti». Ma voi avete un riscontro che queste vostre orazioni arrivino a destinazione? «Il nostro è un dono gratuito, senza aspettarci nulla in cambio. Nemmeno una conferma». La vostra vocazione è quella di pregare, ma in un mondo secolarizzato c’è ancora fame di Dio? «Chi arriva da noi e mette nella cassettina un biglietto, con quel gesto dice che c’è estremo bisogno. Chi chiede preghiere ha già messo a fuoco qual è il suo problema. E la nostra è una preghiera incarnata nelle istanze e nei problemi delle persone». «A volte vengono qui persone malate, e anche se non ricevono una cura che noi non possiamo dare, trovano qualcuna che le ascolta. È quello che chiamiamo il ministero dell’ascolto e della misericordia. A volte trovano pace. Accade con tante persone, sia che vengano qui o che chiamino al telefono».

Perché le monache Clarisse saranno pure “fuori dal mondo”, ma il mondo entra oltre la grata attraverso internet, il telefono, i giornali: l’Osservatore Romano e Avvenire. Quest’ultimo, con particolare attenzione all’agenda internazionale.

Si può uscire per votare

«Per noi la clausura è vissuta come quarto voto, oltre ai tre canonici delle congregazioni religiose: povertà, castità e obbedienza. Possiamo uscire dal monastero per cure mediche, per lutti familiari, per votare».

La clausura ai tempi del Covid Le monache di clausura non fanno ferie, non vanno in vacanza. D’estate, per qualche settimana allentano la rigidità delle scadenze giornaliere. Un tempo si alzavano anche la notte per recitare la liturgia delle ore; adesso lo fanno una volta al mese. Nel mondo di fuori abbiamo trascorso un paio di mesi in clausura a causa del Covid-19, e per molti di noi è stata un’imposizione pesante. Per voi, che la clausura l’avete scelta, che cosa hanno significato quei giorni? «È stato un tempo speciale, anche perché attorno a noi c’era un silenzio surreale. Molti ci dicevano: per voi non cambia nulla, tanto la clausura l’avete scelta. Ma quei giorni ci hanno dato il senso più profondo del bisogno della mano di Dio sul mondo. Sono stati giorni faticosi e pieni di sofferenza. Ci arrivavano notizie di morte, di persone lasciate sole nell’ultimo miglio; di gente disperata di fronte all’ignoto».

«È stato un periodo intenso, anche tra di noi. Abbiamo ampliato la preghiera di intercessione. Sul piano personale, la mia mamma che abita a Torino e viene qui ogni anno, oppure telefona ogni tre o quattro mesi, adesso telefona ogni due settimane». D’accordo la preghiera, nulla da dire sulla scelta di vita, ma vivere recluse in una comunità di undici donne non deve essere sempre facile. Ci sarà tra di voi quella che vi è più simpatica, quella che invece vi sta cordialmente sullo stomaco. Come si superano questi problemi di convivenza forzata? «Ogni due mesi abbiamo una riunione di revisione e di condivisione. Si pongono problemi, si ascoltano le ragioni delle consorelle, si evidenziano le difficoltà come in una grande famiglia».

«Ho cominciato la mia nuova vita ad Assisi, in un monastero con più di cinquanta monache. La vita in comunità così grandi è dispersiva, è difficile approfondire la conoscenza reciproca. Qui, siamo in undici e la fraternità è più viva ma è anche più faticosa. Chiara diceva che ogni sorella è un dono del Signore».

Non vi sfiora mai il dubbio che tutto ciò che state facendo sia inutile, che non ci sia un aldilà? «Il dubbio sull’aldilà, no. Il resto fa parte del dono della Fede». Ma voi, siete felici? «Da quando ho fatto la professione perpetua mi firmo “felice Clarissa”. Sì, sono una felice clarissa». Padre Italo Kresevic (1940), il francescano che è il loro confessore, dice che «sono proprio delle brave monache». Conferma in tal modo quanto raccontò, trent’anni fa, l’allora vicario generale della diocesi, Severino Visintainer (1932 - 2015): «Sono stato a confessare le Clarisse di Borgo Valsugana. Gnanca en pecà da galantòm».















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