Sale parto, asse Cles-Trento-Rovereto

Arisi: «Già 15 anni fa questa era la direzione, le persone vogliono il meglio». Eccher: «Errore screditare gli ospedali di valle»


di Chiara Bert


TRENTO. Tre punti nascita a Trento, Rovereto e Cles. Questo prevedeva, già 15 anni fa, il progetto di ristrutturazione delle sale parto elaborato dal gruppo di lavoro dei responsabili trentini di ostetricia e ginecologia coordinati dall’allora primario del S.Chiara Emilio Arisi, oggi in pensione. «Prendevamo in considerazione distanze, tempi di percorrenza, numero di parti e provenienza delle partorienti, tenendo conto degli standard minimi, 500 parti all’anno, indicati dalle organizzazioni internazionali - spiega Arisi - e già allora si immaginava un asse portante Cles-Trento-Rovereto. Dopodiché è chiaro che Cavalese per una serie di considerazioni geografiche non può essere subito smantellato. Tutti gli altri ospedali possono essere discussi. Chiaro che quelli delle Giudicarie o dell’Alto Garda si lamenteranno, ma questo è il destino. Del resto se uno ha un infarto a fianco al Mount Sinai Hospital di New York e un altro in un bosco, purtroppo quello del bosco è sfortunato. Il punto è che non si può avere il Mount Sinai hospital ovunque». Parla chiaro il dottor Arisi, mentre il dibattito sui punti nascita negli ospedali di valle è tornato di stringente attualità alla luce dei dati sul calo delle nascite (a Tione nel 2013 solo 178, a Cavalese 263) e della decisione del primario di ostretricia di Arco che ha annunciato lo stop ai cesarei programmati, come da direttiva dell’Azienda sanitaria. L’assessora alla salute Donata Borgonovo Re ha dichiarato che non ci saranno chiusure calate dall’alto, come avvenne con l’ospedale di Borgo, ma «percorsi concordati» e che ogni ragionamento partirà dalle condizioni di sicurezza per madri e neonati.

La strada appare tracciata e per Arisi «ha una sua logica»: «Non si può prescindere da dei livelli di sicurezza per gli operatori, che poi significa sicurezza per la donna che partorisce e per il bambino. Cambiano i tempi e le esigenze. Se mia madre e mia nonna potevano permettersi il lusso di partorire a casa perché non succedeva nulla, nel senso che i paesi erano pieni di bambini con handicap, oggi se qualcosa nel parto va storto ti chiedono 5 milioni di euro di risarcimento. Tutti parlano di partorire vicino a casa, ma in realtà oggi le persone, in questo caso le donne, vogliono il meglio». Ergo, meglio chiudere i punti nascita periferici? «La politica di oggi si confronta con una situazione diversa da quella di trent’anni fa quando si è pensato di ristrutturare Tione o Cavalese. Si possono trovare soluzioni intermedie, percorsi progressivi per avvicinarsi all’obiettivo senza perdere d’occhio la sicurezza. Sul territorio devono restare servizi alternativi alla sala parto, una soluzione ambulatoriale che accompagni le donne al parto». Arisi cita l’esempio della Finlandia, «dove non esistono punti nascita con meno di 2 mila parti in un anno e nel finale della gravidanza le donne vengono avvicinate all’area dell’ospedale»: «Costa meno in termini sociali che assistere un bambino che nasce con un handicap per il resto della vita». Anche perché «se uno vede un parto una volta al mese, come avveniva all’ospedale di Borgo se un’ostetrica sbagliava turno, quell’ostetrica poteva anche essere professionale e affettuosa, ma è come se uno va in bicicletta una volta all’anno».

Il dibattito è quantomai aperto. Per il chirurgo Claudio Eccher «si stanno screditando gli ospedali di valle e questo è un errore perché così le donne vogliono partorire altrove». «Ma il parto non è una malattia, una volta la gente nasceva in casa. Oggi la tecnologia consente di monitorare la gravidanza e conoscere il grado di rischio di un parto. Il problema va affrontato scientificamente e non emotivamente, guardando i dati e la percentuale di patologie e complicanze dei parti nei piccoli ospedali. Se si supera un certo limite si interviene, altrimenti no».

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