Sacrestano da 50 anni: le prime messe in salotto
Luigi Giovannini vive ancora nella casa che si trasformò in chiesa negli anni 60 «Con don Cadrobbi si celebrava anche nei garage». Servì 4 parroci e pure il Papa
TRENTO. Un altare “in prestito” dal Sacro Cuore, una croce in ferro battuto realizzata dal padrone di casa, sulle pareti una Madonna con bambino «affrescata» dalla maggiore delle sette figlie, allora quindicenne, niente banchi ma sedie in gran parte provenienti dal Seminario. Così si presentava negli anni Sessanta la chiesa di San Carlo Borromeo: la prima chiesa della Clarina, che allora contava appena 19 famiglie per lo più di ferrovieri e contadini scesi dalle valli. Non aveva campanile né rosoni, perché quella chiesa era il soggiorno della casa dove ancora oggi vive Luigi Giovannini, classe 1926, prima montatore di ascensori alla Daldoss, poi addetto alle pulizie all’ospedale Santa Chiara, dove ogni giorno con la sua macchina lucidatrice - racconta - percorreva 16 chilometri.
Gigi, così lo chiamano da sempre i parrocchiani, è sacrestano da cinquant’anni, un traguardo che sarà festeggiato dall’intera comunità durante la festa parrocchiale del 3 novembre prossimo, con le esibizioni del coro Gianferrari alle 10 e di quello della Sosat alle 20.30. «Lui è la nostra memoria storica», dice don Lino Zatelli, il parroco: la memoria della parrocchia e assieme del quartiere cresciuto con lei che oggi è arrivato a contare 8 mila persone («E pensare che per il Prg dovevano starcene 800», sorride Gino).
Ad aprire la porta di casa, al numero 26 di via Medici, è Elisa, una dei 16 nipoti, mamma di una bimba e in attesa di un altro pronipotino da dare al nonno (per ora siamo a quota 7). Mentre la piccola colora dei fogli stampati, la mamma lavora al computer sul tavolo del salotto e la nonna Franca (figlia del sacrestano) ricama un cuscino: «Mai stare con le mai in mano», dice. C’è anche Antonella, impegnata in cucina, e poi arriva un’altra sorella, Sara, che abita qui e ha una vena artistica forse condizionata dall’ “hobby”del padre: sono opera sua le icone che spiccano sulla parete.
Luigi Giovannini non presta più servizio da giugno per motivi di salute e le figlie si alternano, a casa, per dargli una mano. «Io e Antonella veniamo tutti i giorni», dice Franca. «Ma passano anche Manuela e Marisa, mentre Cristina viene ogni tanto perché ha 5 figli».
Il sacrestano, accompagnato alla sua poltrona, ha un sorriso vivace e memoria buona: «In Clarina cercavano un posto per fare la chiesa», racconta. «La signora Dissegna, che era catechista, aveva messo a disposizione un locale in via Medici, dove più tardi arrivò il “bar della Jessica”. Durò solo una sera perché non si poteva dir messa mentre sotto bestemmiavano», continua Giovannini. Che pensò allora di offrire casa sua: «Celebrò qui padre Primo Bianco, allora parroco di San Bartolomeo, dal ’63 al ’69. Poi arrivò don Riccardo Cadrobbi da Brez: aveva già costruito due chiese, una lì e una a Dorsino e l’arcivescovo Gottardi gli disse di venire da noi a fare la terza». Una figura indimenticabile e dal grande carisma, don Cadrobbi, una specie di padre fondatore della parrocchia, scomparso il 3 agosto 2009. Con il suo arrivo la chiesa, con gli “arredi” annessi, fu trasferita nei garage delle case Tamanini, in via Marsala, che erano parenti del vicario del vescovo. «In quei locali c’era la vetreria di Viola, che si rese disponibile a trasferirla sulla strada per Aldeno», continua Giovannini. Solo nel 1976 il quartiere ebbe una vera chiesa, l’attuale. Le figlie di “Gigi” mostrano l’album con le foto di quel giorno: si vede tanta gente ma il padre solo a malapena. «Non mi facevo fotografare: ero sempre di schiena, impegnato nel servizio», dice lui. Dei sei anni in cui si celebrò a casa sua ricorda il grande affollamento: «C’erano 70-80 persone che si accalcavano anche sulle scale, mentre la mia camera era riservata ai ragazzini. Ma nel frattempo si iniziavano a celebrare messe anche in alcuni garage delle case e dei condomini che stavano sorgendo. All’epoca c’era anche don Adolfo Scaramuzza, il cappellano: eravamo attorno al ’68, il periodo di Curcio e di Boato, che abitavano proprio in via Degasperi. Don Riccardo cercò pure di coinvolgerli in una specie di consiglio di quartiere...». In Clarina vennero a “dare una mano” anche giovani sacerdoti come Giancarlo Pellegrini, il celebre “don turbo” - ricorda il parroco Zatelli - e Angelo Gonzo: «alcuni di loro divennero poi preti operai».
Il rione, che andava dal ponte dei Cavalleggeri alle Acque calde, si era sviluppato attorno al nucleo delle case dei ferrovieri, in via Einaudi. «Di giorno gli adulti andavano al lavoro e ai ragazzini mettevano al collo una catenina con le chiavi di casa. Padre Giuseppe Malacarne cercava di fare un po’ di catechesi e di organizzare dei giochi». La giornata tipo del sacrestano iniziava alle 6.30-7 con l’apertura della chiesa, alle 8 c’era la “sospensione” per recarsi al lavoro, dalle 18 il ritorno in chiesa, «ma nei feriali spesso la messa si celebrava solo al mattino, mentre la domenica si arrivava a 4 o 5». E a casa quando arrivava? «Non ne avevo di ore...», dice Gino. «Lo vedevamo in foto, però quando tornava bisognava esserci: ci voleva a casa», precisano le figlie. I primi 6 nipotini, quand’erano piccoli, andavano ad aiutare il nonno al mattino: «Dopo la messa delle 8 lo aiutavano a sparecchiare», dice Franca.
Gli oboli all’inizio non erano certo ricchi: «Non arrivavi a 4-5 lire: allora ti davano i centesimi. Ma negli anni successivi riuscimmo a finanziare la colonia di Deggia, a San Lorenzo in Banale», precisa Giovannini. Che ha “collaborato” con 4 parroci (dopo Bianco e Cadrobbi, don Paolo Baldessari e Zatelli) e persino un Papa: Wojtyla. «Feci il servizio in Duomo. Era un burlone, faceva un sacco di battute. Ai suoi assistenti che obiettavano sulla mia presenza disse: “Cosa volete comandare qui, non vi basta il Vaticano”?».
Ma se gli parli della festa che lo attende Gino si schermisce: «Il mio era un servizio e quindi gratuito. Quando vado in chiesa mi pare di essere un’esca. Tutti mi dicono: “Ci manchi Gino, quand’è che vieni?”. Ma io lo facevo perché me la sentivo di farlo». Beh, loro ora si sentono di festeggiare il loro storico sacrestano. «Ognuno ha i suoi diritti», replica Giovannini. Lui ci sarà, ancora una volta.