l'analisi

Omicidio di Rovereto, lo psichiatra: «L’assassino è di certo violento, non è detto sia pazzo»

Claudio Agostini: "L'equazione violento uguale matto non regge. Il Male esiste anche se ammetterlo costa fatica. E l'equilibrio psichico di un immigrato è un problema serio".


Jacopo Strapparava


TRENTO. «Sto attraversando una fase di avvilimento. Ho dedicato tutta la mia vita al superamento di certi stereotipi. E ora vedo che tutti agitano ancora i soliti vecchi fantasmi...».

È terribilmente serio, il dottor Claudio Agostini, classe 1957, primario di psichiatria, direttore del Centro di salute mentale di via Borsieri, subito dietro piazza Fiera.

Lo si era contatto già l’altro giorno, man mano che le notizie in arrivo da Rovereto andavano a formare un quadro di ora in ora più chiaro. In principio, il dottore si era negato: «Come Azienda sanitaria abbiamo deciso di non intervenire. L’argomento richiede un quadro emotivo meno scosso». Poche ore dopo, è lui a rifarsi vivo: «La quantità di fake news che gira in queste ore ha raggiunto livelli intollerabili. Non posso non parlare».

Il dottore arriva subito al punto. «Bisogna essere chiari. L’assassino non era seguito da noi. Nel nostro archivio c’è un’unica consulenza a proposito di Nweke Chukwuda, e sa cosa dice? “Non di pertinenza psichiatrica”». È questo il fatto che ha spinto Agostini ad aprirsi con la stampa: l’idea - l’accusa? - che dietro al caso di Rovereto ci sia stata una mancanza di prevenzione, una inadeguatezza dei servizi psichiatrici. «Non è vero. C’è la tendenza a vedere tutti i problemi sociali come problemi psichiatrici. Ma non è sempre tutta colpa della psichiatria».

A dirla tutta, non gli è piaciuta nemmeno la proposta di stilare una lista con tutti i possibili «soggetti a rischio», come se l’esplosione del disagio psichico fosse un fatto perfettamente prevedibile. «È una fantasia. Una fantasia folle e scellerata».

Da specialista, quando si entra nel suo campo, non sopporta le banalizzazioni. E, soprattutto, quella implicita equazione per cui «paziente psichiatrico uguale soggetto pericoloso».

«In questi giorni circolano semplificazioni pericolose e inaccettabili» spiega. «Proviamo ad astrarci un attimo da questo caso specifico. Il problema è sempre il solito, quello del Male».

«Il Male esiste, dobbiamo riconoscerlo. Hitler. Eichmann. Pinochet. Putin. Ci metta tutti i nomi che vuole. Da un punto di vista psichiatrico erano o sono perfettamente sani, e non c’è prova del contrario. Mentre i miei pazienti, per la stragrande maggioranza, non farebbero male a una mosca». È un passaggio che gli sta a cuore. «Se chi commette un crimine fosse sempre e comunque uno squilibrato, dovremmo chiudere di colpo le patrie galere e riaprire i manicomi. Invece in tutti quei casi l’imputabilità c’è tutta. E le dirò di più: non so niente del caso di Rovereto, ma se fosse dimostrato che quel signore ha agito in stato di alterazione dovuta all’alcol e alla droga, la cosa costituirebbe un’aggravante. Lo prevede il nostro ordinamento. Se ci pensa è logico, altrimenti basterebbe ubriacarsi per essere impunibili. È un fatto che dovrebbe essere noto a tutti, a quanto pare non è così».

Agostini dice di aver passato tutta la sua carriera «a tentare di superare modelli psichiatrici desueti» e non sopporta che oggi si proponga di isolare la gente, di creare dei centri dove curarli. «Chi avanza queste proposte mi deve dire due cose. Primo: come intende costruirli? Secondo: che criterio utilizzerebbe per stabilire chi ci finisce dentro? Chi mi assicura che magari non ci finirei dentro pure io? Queste semplificazioni sono intollerabili!».

A noi, per non saper né leggere né scrivere, viene spontaneo un dubbio. Questa enfasi nel voler sottolineare la pazzia di un criminale, non è forse un modo per rifiutarsi di ammettere la realtà? «Sicuramente è una forma di auto-rassicurazione. Inconsciamente, pensiamo: “è una malattia, non fa parte di me”. Del resto, lo sgomento è tale che come psichiatra posso capire una reazione del genere. Sa, certi dettagli... Sono fatti al limite della nostra capacità di accettazione, la reazione spontanea è: “Non è umano, non mi somiglia, io non c’entro niente”».

La conversazione vira sul filosofico. «Il problema si articola su vari livelli. C’è il Male, come dicevo, che esiste, e non è una stortura, ma un elemento essenziale dell’animo umano, impossibile negarlo o pensare che sia sempre frutto di malattie psichiatriche. Il secondo livello è il libero arbitrio: l’uomo può sempre scegliere tra bene e male. Il terzo è il nostro vissuto: in certi casi, la capacità di fare delle scelte, di distinguere le cose, persino di formarsi una struttura etica, è offuscata. Io sono un medico, nato in Occidente... ma gli altri?».

La biografia dei giovani africani che arrivano in massa sulle nostre coste diventa così determinante. «In Africa le condizioni storiche, ambientali, sanitarie non sono le nostre. Ci sono interi Paesi, per dire, che sono stati falcidiati dall’Aids. Molti di questi immigrati, talvolta, sono orfani, cresciuti dal villaggio, senza genitori alle spalle. Cresciuti senza famiglia, senza potersi formare quello che io chiamo un “sistema operativo esistenziale”. Cresciuti sognando l’Europa, con l’idea che bastava venire qui per diventare ricchi e girare con la Ferrari. Messisi in viaggio e passati attraverso una via crucis di violenza. Arrivati qui solo per trovare le speranze mortificate, magari l’unico modo che trovano per sbarcare il lunario è fare lo spacciatore, magari finiscono a dormire sotto un ponte con un machete tra le braccia per evitare che il loro vicino rubi quel poco che han guadagnato... È chiaro che tutto questo crea delle disarmonie. E quand’anche queste disarmonie non fossero causa di problemi psicologici, vanno affrontate».

Prima di salutarci, Agostini ci tiene a dire ancora una cosa: «Guardi, non voglio iscrivermi alla lista di quelli che si vogliono smarcare. Dico solo che problemi complessi vanno affrontati cercando soluzioni complesse. Ciascuno deve fare la sua parte. La politica. La magistratura. I medici. Le forze dell’ordine. Assieme possiamo tentare se non altro di mitigare i rischi. Senza buonismi e semplificazioni. Perché il problema dell’immigrazione c’è. È epocale. E ne stiamo vedendo solo l’inizio».

 













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