MEDIA

Le solitudini connesse dei social media

Intervista a Jacopo Franchi, che oggi presenta a Trento il suo saggio su Facebook e dintorni


di Carlo Martinelli


TRENTO. Quarta edizione per il festival dedicato alle parole organizzato da Bookique a Trento. Tre giorni fitti fitti con «Il Peso alle Parole» per rispondere alla domanda se davvero, oggi, le parole abbiano ancora un peso. Tra gli appuntamenti in programma spicca, oggi, giovedì 7 novembre, ore 18, alla libreria Due Punti, la presentazione del libro “Solitudini connesse” (Agenzia X edizioni) con l’autore Jacopo Franchi. Il suo è un viaggio documentato per capire in che modo i social media abbiano modificato le più importanti ritualità connesse alla vita quotidiana: nascere, morire, incontrarsi, lasciarsi, vivere l’adolescenza e il passaggio alle varie fasi dell’età adulta. In sintesi: cosa siamo diventati dopo anni di esposizione quotidiana al “flusso” – interminabile – di nuovi “post” e “tweet da leggere? Carlo Martinelli e Michele KettMajer ne parlano oggi con Jacopo Franchi, social media manager e blogger (www.umanesimodigitale.com) a cui abbiamo rivolto qualche domanda in anteprima.

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Sprofondare nei social media è il sottotitolo del suo saggio. Ora, quando si sprofonda o non si riemerge più o si torna in superficie, si prende aria e si riprende a vivere. A che punto siamo con i social media? Ci annegheremo dentro o impareremo ad essere altro da quel che eravamo, prima di questo enorme cambiamento? 

Lo “sprofondare” è un’immagine che evoca il passaggio da una dimensione all’altra, dal reale al virtuale. Stiamo “sprofondando” nei social media, nel senso che molti di noi passano sempre più tempo con un cellulare in mano, impegnati nel titanico sforzo di trasferire in un ambiente digitale ogni più piccolo aspetto della propria esistenza: da quello che hanno mangiato a pranzo, a quello che hanno letto nel pomeriggio, fino a momenti ben più significativi come la nascita di un figlio o la morte di una persona cara. Difficilmente si torna indietro. Abbiamo scoperto, con i social media, uno strumento che ci consente di “salvare” su uno spazio esterno la memoria di quello che siamo e che siamo stati, di sottrarre all’oblio quotidiano i momenti più e meno significativi della nostra esistenza, e di rendere quest’ultima un racconto corale e condiviso con altre persone. Non siamo più quelli che eravamo un tempo: ci stiamo trasformando, a partire da nuove forme di racconto di sé e di relazione con gli altri.

Uno dei grandi, incombenti protagonisti del suo libro è il misterioso algoritmo che regola i social media e quindi, a ben vedere, anche il rapporto che lega tra di loro, forse proprio in una solitudine connessa, milioni di persone. Quale l’effettivo potere degli algoritmi? Abbiamo bisogno di qualche antidoto?

L’algoritmo dei social media è ciò che definisce l’ordine con cui i post degli amici, delle pagine e dei gruppi che seguiamo compaiono nel nostro “flusso” di notizie. Quello su cui non ci si sofferma mai abbastanza è il fatto che l’algoritmo modifichi non solo il modo in cui noi osserviamo il resto del mondo, ma anche il modo in cui il resto delle persone a cui siamo connessi ci osserva e ci interpreta. Se per qualcuno dei nostri “amici” siamo una presenza costante, altri potrebbero non vedere più i nostri nuovi “post” da molto tempo, indipendentemente dalla qualità e dall’effettivo interesse di questi ultimi. Se esiste un malessere nei confronti dei social media, io lo identifico in prima battuta proprio in quell’algoritmo che decide al posto nostro chi e quando vedrà i nostri post, chi e quando vedremo nel nostro “flusso” di notizie. Qualche “antidoto” c’è, ma non sono in tanti a conoscerlo e a sperimentarlo.

Lei scrive: di fronte ai social media siamo tutti giocatori d’azzardo che non riescono a staccarsi dalla macchinetta, che continuano a giocare come se non ci fosse un domani. Ma un domani senza social è ipotizzabile? 

Stiamo assistendo a due interessanti fenomeni che potrebbero rallentare o addirittura contrastare la crescita dei social media: da un lato, la diffusione di “bot” automatici che rendono sempre più difficile distinguere tra utenti “umani”, utenti “fake”, e utenti “umani” che però agiscono “da robot”. Tanto più viene meno la presenza umana, tanto più potrebbe diminuire il nostro interesse verso i social quale mezzo di connessione e relazione tra persone (e durante l’incontro parleremo di come una app come Threads di Instagram stia rendendo automatica perfino la condivisione degli “aggiornamenti di stato”). Infine, se fino ad oggi i social media sono stati un ambiente per lo più “silenzioso” – contenuti scritti, immagini, video ascoltati per lo più senz’audio – non escludo che un domani potrebbero nascere dei social basati principalmente sulla voce: ad esempio, tramite quegli “smart speaker” che in altri Paesi come gli Stati Uniti sono già un fenomeno commerciale.

Lei pone una domanda nelle prime pagine del suo libro: che cosa siamo diventati dopo tutti questi anni di frenetico utilizzo dei social. Si è dato una risposta?

Delle “solitudini connesse”: non esiste più nessuno che sia completamente solo, ci basta aprire un account su Facebook o Instagram per entrare in contatto con dei perfetti sconosciuti a cui inviare – anche se non richiesti – un messaggio o un “mi piace”. Si tratta tuttavia di una solitudine di tipo nuovo: quella di chi nel comunicare e relazionarsi con gli altri deve passare per forza attraverso una macchina, nel nostro caso l’algoritmo. Ogni “gesto” che facciamo verso gli altri, ogni “mi piace” o commento dato o tolto, ha degli effetti sul modo in cui la relazione con questi “altri” proseguirà o si interromperà, proprio a causa dell’intervento dell’algoritmo. Abbiamo accettato, involontariamente, la presenza di una macchina all’interno di una relazione tra due o più persone: non è detto che sia un male, ma non siamo ancora del tutto preparati a comprendere gli effetti di questa rivoluzione.

 













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