Le lezioni contro l’odio online (quasi) ignorate dai politici
(S)Cambiare opinioni. Al laboratorio socio-emozionale presenti solo i consiglieri Ghezzi, Ferrari, Marini e Kaswalder Lo scopo? Capire come si forma l’aggressività su internet «dove la gente scrive quello che una volta diceva solo al bar»
Trento. «Ho visto Claudio Cia che faceva capolino» dice, un po’ polemico, Paolo Ghezzi, il capo di Futura 2018, in un angolo della sala: «Speravo venisse, visto che mi ha definito “uno scimpanzé”».
Siamo al secondo piano di Palazzo Trentini, in via Manci, sede del consiglio provinciale. Si è tenuto qui, dalle 9 alle 13 di ieri, il convegno dal titolo (S)Cambiare opinioni, per imparare a disinnescare l’odio online. Il tema, gli insulti sui social, è tra quelli più in voga al momento: sono un classico quelli contro immigrati, donne, omosessuali e avversari politici ma in realtà i bersagli sono tanti, e ognuno si sceglie il suo.
L’incontro - «un laboratorio socio-emozionale per capire cosa muovono in noi i discorsi di odio» - era stato messo in calendario a fine maggio, dopo che il capo di gabinetto dell’assessore Spinelli era stato costretto a dimettersi perché colto con le mani sulla tastiera, a tuittare cose decisamente becere (anche se, secondo il Forum della Pace, l’organismo che ha promosso il convegno, l’iniziativa era già nell’aria...).
L’idea era coinvolgere anche i consiglieri provinciali. Ma tra la quarantina di persone del pubblico se ne vedono solo tre: Alex Marini, dei 5 Stelle, Sara Ferrari del Pd, e appunto Ghezzi. Seduto in fondo, c’è anche il presidente del consiglio Walter Kaswalder, Autonomisti Popolari, unico esponente della maggioranza.
Si comincia con una specie di gioco per rompere il ghiaccio (all'americana, lo chiamano “icebreaking”): «Fingetevi giornalisti, prendete un pennarello e scrivete una notizia». E così, ecco Marini che scrive «Abdul salva Matteo», ecco Ghezzi alle prese con i titoli (e lo prendono in giro perché lui, giornalista, lo è davvero). Kaswalder pensa a «Autonomia e autogoverno nel cuore delle Alpi» e la sua testata è «Popoli Liberi» («Cosa vi aspettavate da me?», sorride). Il tutto serve a dimostrare che non esiste, nella comunicazione, un modo univoco, filtrato, selettivo e al 100% obiettivo di dire le cose. Poi Elisa Rapetti, del Forum, tiene una breve lezione, tutti analizzano alcuni post offensivi e insieme si ragiona su «come ci si sarebbe potuti esprimere in maniera non ostile». Lorenzo Ferrari, ricercatore all'Osservatorio Balcani e Caucaso, fa una presentazione teorica.
Va detto che al di là della ricerca di una definizione, del fatto che l'espressione hate speech «compare a partire dagli anni 60 nella letteratura scientifica», da quante volte è citata nei documenti Onu e della Ue, della «piramide dell'odio» per giudicare i singoli post, il tema è in realtà vecchio come il mondo. Tanto è vero che pure Catullo, in un suo carme, insultava il politico Giulio Cesare e Federico Fellini, quando girò La Dolce Vita, ricevette 400 telegrammi di insulti in un solo giorno.
«La novità è che oggi la gente scrive sui social quello che prima sbraitava davanti alla tv o raccontava agli amici al bar - riflette Marini - ora tutto rimane lì per sempre e raggiunge molte più persone». E bisogna trovare modi nuovi per affrontare il fenomeno.
«Oggi noi politici dedichiamo un tempo abnorme alla comunicazione, e quella via internet elimina il tempo di latenza, impedisce di pensare» dice ancora Ghezzi. E c'è il paradosso che oggi, in realtà, la nostra società non è mai stata così disabituata alla violenza fisica. «Uno psicologo direbbe che l'odio online ne è un surrogato» riflette l'ex giornalista. Ora però deve scappare. «Alle undici ho un incontro in commissione con Vittorio Sgarbi». E scherza: «Chissà lui, sul tema dell’odio, come la pensa».