Le ferie solidali dei medici trentini 

In Africa anziché sotto l’ombrellone: «Ma qui ci sentiamo ripagati» 


di Pietro Gottardi


TRENTO. Quando la temperatura aumenta, l’aria si fa afosa e gli uffici si svuotano, il primo pensiero della maggior parte delle persone va a momenti di relax da concedersi durante le vacanze. A questa visione si contrappone però chi, lontano da comfort e riflettori, dedica all’aspetto umanitario il proprio tempo libero, rinunciando al riposo per fornire un aiuto al prossimo, in particolare dal punto di vista medico. La rodata macchina di solidarietà che da anni unisce l’Africa al Trentino non si limita però a questo, perché i progetti che legano la nostra regione al continente a sud del Mediterraneo abbracciano sostanzialmente tutte le questioni principali che si frappongono tra povertà e sviluppo.

In questo scenario, una figura che ha fatto da precursore all’impegno trentino in Africa è di certo Carlo Spagnolli, medico che da decenni ha consacrato la sua esistenza al miglioramento della condizione generale di alcuni fra gli Stati più poveri del mondo. «La mia è stata un vita impagabile» - esordisce, tirando le somme di un percorso che non ha mai visto l’ambito professionale distaccarsi da quello umanitario. «A partire dal 1975 ho vissuto per quindici anni in Uganda, per poi spostarmi in Eritrea, al tempo martoriata dalla guerra civile, dove ho prestato servizio come chirurgo d’urgenza. Sono stato nell’Etiopia meridionale, ho trascorso un breve periodo in Camerun e ultimamente il mio viaggio ha toccato anche lo Zimbabwe».

Approdato nel continente africano appena concluso il corso di laurea in medicina, ha da subito affrontato sfide proibitive: «In Africa un medico si trova davanti una varietà di patologie impressionante, per cui deve diventare autosufficiente il più velocemente possibile. Assorbire sul campo da colleghi più anziani la capacità di curare il maggior numero di malattie è un processo fondamentale». Spagnolli specifica poi che le branche della medicina più richieste sono l’ostetricia, per garantire alle donne un parto in condizioni sicure, e la chirurgia generale visto l’altissimo numero di pazienti da operare. «Un altro aspetto chiave - conclude - è rappresentato dalla trasmissione delle conoscenze, dall’insegnamento diretto al personale medico locale così da preparalo ai casi futuri».

C’è poi anche chi, come Domenico Catanzariti, ha un lavoro stabile in Trentino, ma su base volontaria trascorre le sue ferie nel continente africano per dare una mano a chi troppo spesso viene dimenticato. «Negli ultimi anni sono stato in Africa quattro volte per periodi di circa due settimane, venendo tra l’altro affiancato da personale infermieristico sempre proveniente dalla nostra regione, senza il quale mai avremmo potuto conseguire gli obiettivi che abbiamo invece raggiunto. A Chinhoyi, città dello Zimbabwe di circa 100000 abitanti - prosegue il cardiologo roveretano - l’ospedale consisteva praticamente dei soli reparti di pronto soccorso, medicina generale e ostetricia e mancava una quantità inimmaginabile di materiale che in Italia viene considerato scontato. Come volontari trentini, abbiamo contribuito a fondare l’unità di terapia intensiva e quella di cardiologia, fornendo anche equipaggiamento di base come reti e materassi e dispositivi medici essenziali per diagnosticare le malattie del cuore quali l’elettrocardiografo o l’ecocardiografo. Effettuavamo più di 200 visite al giorno, fermandoci soltanto quando ce lo imponeva la troppa stanchezza».

Anche l’acquisizione di competenze da parte del personale locale ha giocato un ruolo centrale nel progetto: un medico e due infermieri dello Zimbabwe hanno infatti soggiornato a Trento per qualche settimana, seguendo una sorta di brevissimo corso di formazione che ha permesso loro di tornare con la capacità di gestire un maggior numero di situazioni.

Catanzariti si è alternato con Roberto Bonmassari, cardiologo dell’ospedale di Trento che dal 2012 al gennaio di quest’anno ha affrontato ben cinque viaggi in Africa, tutti con l’intento di dare una spinta alla medicina locale. «Il nostro compito - racconta lo specialista - oltre a fornire le cure immediate è gettare le basi affinché un giorno i colleghi possano gestirsi da soli. A tal proposito mi preme citare l’esempio di una dottoressa che vedendoci all’opera si è appassionata alla cardiologia e ad oggi sta seguendo un percorso di formazione in Ucraina, per perfezionarsi ulteriormente». Bonmassari inoltre sottolinea come l’enorme mole di lavoro fosse causata anche dallo spargersi della notizia di un’équipe straniera che visitava a titolo totalmente gratuito. «La popolazione affrontava tratti lunghissimi per arrivare a Chinhoyi, anche più di 200 km percorsi ovviamente a piedi». Durante il periodo di cooperazione, anche l’unità di chirurgia dell’ospedale pubblico che ospitava i medici trentini è stata sviluppata partendo da zero garantendo ai locali un altro reparto assolutamente imprescindibile. «Ciò che mi è rimasto maggiormente impresso dell’intera esperienza - conclude Bonmassari - è la disponibilità da parte dei locali, la loro inesauribile sete di imparare, la loro cordialità disarmante nonostante la criticità della situazione in cui si operava».

Spostandosi di pochi chilometri a nord e cambiando provincia, un’altra storia di solidarietà gratuita è quella della dottoressa Cristina Pizzini, che ha da poco ripreso il suo lavoro all’ambulatorio di Magré, dopo una quindicina di giorni in Africa. Originaria della Val di Non, è medico igienista del distretto della Bassa Atesina. Convinta da un collega spagnolo docente di infettivologia a Madrid, è partita per l’ospedale di Gambo, 250 posti letto a 7 ore di fuoristrada dalla capitale Addis Abeba. Con lei la figlia Martha, studentessa di medicina. «È stata un’esperienza bella e soprattutto intensa, grazie al supporto dei colleghi spagnoli e alla vicinanza di mia figlia». La struttura ha una gestione governativa che conta sull’aiuto dei volontari della vicina missione della Consolata, tra cui un’infermiera di Novara che vi lavora da ben 17 anni. Quello che più colpita Cristina è stata la mancanza di pulizia: «Il pavimento è in terra battuta, non si usano lenzuoli. Al Pronto Soccorso arrivano pazienti sporchissimi e non vengono lavati prima di essere Inoltre», prosegue, «tubercolosi e lebbra non sono ancora state debellate, nonostante contro quest’ultima vengano distribuiti farmaci gratuiti. Al Pronto Soccorso arrivavano e morivano soprattutto donne e bambini debilitati per la scarsità di cibo; era una pena, ti guardavano con quegli occhioni neri e non si lamentavano, le possibilità di intervento purtroppo in molti casi erano minime». In ospedale, la dottoressa Pizzini e la figlia Martha non avevano un compito preciso. Prestavano servizio dovunque fosse necessario e nel tardo pomeriggio, sfinite, tornavano alla missione gestita da Alvaro, un religioso spagnolo che nella zona ha anche fondato una scuola. «Non escludo di tornarci», conclude la dottoressa, «anche se l’impatto con la sanità locale si è rivelato in parte traumatizzante».













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