La tragica lezione di Stava
Le lacrime. Il fango. L’immane dolore. Il risveglio di un Trentino ferito, scosso, sorpreso. La ricostruzione. I processi. La solitudine. Il silenzio. Sotto la coperta dei ricordi, tutto resta ancora molto nitido: venticinque anni dopo, Stava è una parola che tutto contiene e tutto racconta. Non è più solo il nome di un’amena e ai molti sconosciuta località: é un pugno di lettere nello stomaco della nostra storia. C’è un passato. C’è un futuro. E in mezzo c’è Stava, con i drammi e i fantasmi che hanno riempito questi cinque lustri di ferite rimarginate a fatica, ma anche di una grande dignità, vissuta come barriera rispetto all’inaspettato che accade, sconvolgendo per sempre l’isola della normalità.
Il 19 luglio del 1985 è stato, per molti di noi, il giorno di un risveglio feroce: c’è chi è diventato adulto in poche ore; chi ha perso tutto, chi ha intuito che il Trentino doveva cambiare faccia.
Ricordo tutto, di quel giorno. Le matite colorate che il fango ha restituito ad una giornata assolata, così tragicamente stonata rispetto al buio dei pensieri e dell’anima. I volti attoniti di superstiti e soccorritori. Uno per tutti: Romano Pojer, che vagava sul ciglio dell’enorme lingua di fango, alla ricerca della sua famiglia annientata da quell’onda assassina, cercando di fermare ogni ricordo, ogni gesto, ogni ultimo minuto di quel momento che ha spinto tutti di noi nell’abisso che separa la vita dalla morte. Ricordo lo smarrimento, ma anche la voglia di ricominciare subito, di voltare pagina. Ricordo il volto di Mengoni, quello di Cossiga, quello di Zamberletti: protagonisti, in Provincia, nello Stato e nella Protezione civile, di un’epoca che quel giorno si chiudeva per sempre, anch’essa diga che si sbriciolava al cospetto dell’imprevedibilità della sottovalutazione umana che si faceva negligenza criminale. Il destino era l’unico assente: perché solo dell’uomo - come sempre o quasi - era la responsabilità di una sciagura che annientò 268 vite umane, un’intera valle e un periodo storico. Ricordo i colleghi di tutta Italia. I corpi che la terra restituiva, senza identità, privati anche della delicatezza di un volto. Ricordo il mio amico Piero Degodenz e gli altri compagni di viaggio di una stagione serena: i loro sguardi, il loro modo di pensare, la loro carica, la loro forza, sono diventati quel giorno la roccia dalla quale far ripartire una comunità.
Stava è molto di più di una tragedia: è uno spartiacque del tempo, della mentalità, dell’amministrazione. Ed è anche - attraverso la Fondazione e questo modo speciale di ricordare senza piangersi addosso, ma impedendo anzi che altri debbano piangere nuovamente per la superficialità e l’avidità dell’uomo - un archivio della memoria, una rete di idee, di progetti, di storie: per capire, per far conoscere, per gridare “mai più”.
Le lacrime sono come il fango: col tempo si asciugano e tornano ad ospitare sguardi lievi come prati. Ma conservano nella memoria la traccia di ogni lacerazione. E per questo fermarsi sul ciglio dei pensieri e ricordare, ogni giorno, ogni anno, è così importante.