In via Veneto un viaggio nel passato

Il quartiere in festa riscopre il tempo in cui i bambini giocavano a pallone per strada e i più grandi si conoscevano tutti


di Paolo Piffer


TRENTO. In via Veneto, negli anni Settanta e Ottanta, nel giro di cento metri, tra l’incrocio con via Mattioli e quello con via Bronzetti, c’era tutto: le scuole elementari e medie, tabacchi e giornali, frutta e verdura, il distributore di benzina, il bar, la farmacia, la macelleria, il circolo anziani e la sede dell’Ente comunale consumi, sorta di market ante litteram. Adesso, in San Giuseppe, è un’ininterrotta sequela di “affittasi” e “vendesi”. «Ma la desertificazione è iniziata ben prima della crisi - dice Adriano Cavosi, titolare (insieme alla moglie Claudia e alla figlia Michela), da 41 anni e pochi mesi del Malybar nonché, e ci tiene a ricordarlo, fondatore dell’Associazione diabete giovanile del Trentino - Il crollo è iniziato quando da via Bronzetti sono andati via i vigili urbani e il polo sociale. Ci vivevano bar e ristoranti, quei servizi erano grandi attrattori di gente che sciamava nel quartiere per gli acquisti. Certo, la crisi ha dato una gran botta. Ora si sopravvive».

Ieri in via Veneto le macchine erano bandite per la tradizionale festa annuale che Cavosi si è inventato una decina d’anni fa mettendo insieme tutti i commercianti e che in seguito è passata in carico alla circoscrizione San Giuseppe - Santa Chiara quando il presidente era l’attuale assessore Italo Gilmozzi. Gimkana, sport, mercatino del riuso e dei libri usati con donazioni pro terremotati, danze, mostra storica che rievoca la storia dei Casoni e del Vaticano, stand espositivi delle associazioni, cena a base di wurstel e crauti con musica di un gruppo che basta il nome a farne un programma: “Ho i vermi”. Festa paesana, nel bene, s’intende. E non si va poi tanto lontano dal vero, guardando alla storia. Perché San Giuseppe era, effettivamente, un paese, come sottolinea Cavosi. E il bar uno dei suoi centri. Un bar dove dietro al bancone, a coprire quasi tutta la parete, c’è ancora una grande porcellana cotta nel forno opera di Corrado Daldoss, il patriarca degli ascensori, morto non molti anni fa, e a tempo perso artista. Porcellana che racconta in termini allegorici e mitologici una storia vera più che mai. L’innamoramento senza fine di un suo fratello per la barista di allora. Era il 1957, ben prima che arrivasse Cavosi. Ma la porcellana è rimasta. Per un quartiere, il più vecchio della città, sono punti fermi. Un tarlo, per Cavosi.

«Uno sbaglio storico delle amministrazioni comunali nel corso dei decenni - sostiene - E cioè non aver favorito l’arrivo delle giovani coppie, spedite in periferia nelle casette a schiera. Con il risultato che molti appartamenti pubblici, pure grandi, sono abitati da un anziano. Anziani che spesso hanno paura, non si sentono sicuri, ma non denunciano. Perché qualche ragazzo poco raccomandabile c’è, va detto». Quando il gioco non era ludopatia ma imperava il Totocalcio e poco altro, al Malybar, storica ricevitoria, si arrivò a compilare 25mila colonne del Totip in una settimana, quasi il top a livello nazionale. Lo spritz mica era con l’aperol o il campari ma al vino aggiungevi l’acqua. «In via Veneto - prosegue Cavosi - le macchine erano una rarità e si giocava a pallone in strada e pure si correva in auto, ma al pomeriggio, non di notte. Di domenica il bar era una folla, un luogo di socializzazione. C’era meno ansia, magari anche qualche alterco per un bicchiere in più, ma tutto sotto controllo. Adesso, la domenica chiudo».

Il traffico non manca, ma calmierato. Il progetto pilota europeo con rotatorie, strada allargata, ciclabile è servito ma fuori e dentro il bar non ci sono più i giocatori del Trento, quando il calcio in città era una roba seria, e la C un signor campionato. Codognato, Lutterotti, il “barbone” Daldoss e Sala che, chi con la casacca Malybar chi con quella del Salone Dario di vicolo del Vo’, all’Orione davano calci seri e incrociavano sfide interminabili. E non c’è più, ai Casoni, e il tempo corre ancor più a ritroso, il giovane Cesare Maestri che, in vista delle future pareti, si buttò giù dal secondo piano con un ombrello aperto e si fracassò una gamba. «È cambiato tutto - conclude Cavosi - San Giuseppe è sempre un quartiere popolare, ma ormai vecchio e con meno socialità. C’è qualche problema di convivenza, inevitabile con l’arrivo degli stranieri. Un po’ di spaccio. E per i commercianti è dura».

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