Giacomelli, addio a Trento guiderà la mobile a Trieste
Il dirigente della polizia in partenza per il Friuli. «La soddisfazione maggiore? Il grazie dei cittadini». Lui invece ringrazia i «suoi» poliziotti: grandi professionisti
TRENTO. Sul cestello dei vigili del fuoco per «colloquiare» con gli anarchici sul tetto dell’ex asilo di via Manzoni. Con il giubbotto antiproiettile mentre scorta il pazzo che minacciava di far saltare con una bomba la chiesa di San Pietro. E in giacca e cravatta, nel suo ufficio, per raccontare l’ultima indagine. Luoghi diversi, vestiti diversi, ma una sola persona ossia Roberto Giacomelli (45 anni, di Predazzo, sposato con tre figlie) che dopo 12 anni alla squadra mobile trentina - di cui 11 come capo - dice addio e se ne va a Trieste. Dove sarà sempre capo della mobile.
Ora è ufficiale. Dal 7 ottobre sarà a Trieste. Contento del trasferimento?
Sì. Trieste l’avevo conosciuta in due inchieste sull’immigrazione clandestina ma ora inizia una nuova avventura in una città importante che mi porterà a confrontarmi con una nuova realtà.
A proposito di indagini, qual è la «preferita», quella che le ha dato maggiori soddisfazioni?
Tutte hanno avuto delle caratteristiche che le rendono uniche ma quella che mi ha coinvolto di più è quella sulle rapine in villa iniziata dopo l’assalto ai Marangoni a Rovereto. Un’indagine difficile dove non esisteva giorno o notte, e si lavorava in continuazione. Ma alla fine i risultati sono arrivati, ed è questo l’importante.
E invece quella che archivia con l’etichetta «rimorso»?
Senza dubbio quella sull’assalto armato alla Tfa (marzo del 2005 con i banditi entrati nel deposito di Spini armati di kalashnikov). Le indagini ci avevano portato ad individuare il gruppo che è stato sicuramente l’autore del colpo da 5 milioni di euro ma non si è riusciti a trovare i collegamenti giusti per poterli portare davanti al giudice. E poi c’è il delitto De Cia. Era stato riaperto il caso dopo 20 anni e c’erano diversi elementi che portavano in una direzione ma non siamo riusciti a chiudere il cerchio.
Dopo 12 anni alla mobile di Trento, qual è la sua maggior soddisfazione?
Quando giro in città e la gente mi ferma per dire grazie. Grazie per il lavoro che facciamo, per le nostre indagini. E queste strette di mano sono più importanti dei tanti riconoscimenti ufficiali. Spero di trovare a Trieste la stessa collaborazione da parte dei cittadini che ho avuto qui. E non parlo solo delle segnalazioni: c’è stato anche chi ci ha ospitato in casa o nel negozio durante delle indagini contro lo spaccio. E un grazie va anche alla procura con la quale ho sempre lavorato bene.
Come è cambiato il crimine da quando è arrivato in città ad ora?
All’inizio i criminali erano per lo più italiani. Ora nell’80-90 per cento dei casi si tratta di extracomunitari. Ogni nazione ha la sua «specialità» e gli italiani sono diventati i galoppini.
Ai suoi uomini, ai poliziotti che ha diretto per oltre un decennio cosa vuol dire?
Un grazie di cuore perché tutti i risultati che abbiamo raggiunto, li abbiamo raggiunti insieme: un generale senza i suoi uomini non va da nessuna parte. Sono stato fortunato perché ho lavorato con dei grandi professionisti capaci e preparati. Ma un pensiero speciale va ai «vecchi» ossia a Marcello Manganiello, Nicola Gremes e Marco Spagnolli. Se conto le ore che ho passato con loro, sono di gran lunga di più di quelle che ho trascorso con mia moglie.
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