l'intervista

Enzo Galligioni appende il camice: «Sui tumori grandi passi avanti»

Oggi ultimo giorno di lavoro al Santa Chiara per il primario di oncologia: «Cosa farò? Di certo non più il medico»


di Paolo Piffer


TRENTO. Oggi è l’ultimo giorno di lavoro di Enzo Galligioni, per vent’anni “primario” o, come si dice adesso, direttore del reparto prima e del dipartimento, poi, di oncologia dell’ospedale Santa Chiara. E, nei vent’anni precedenti, dopo la laurea a Padova, dove è nato, uno dei medici che ha contribuito all’istituzione e alla crescita del Centro di riferimento oncologico di Aviano, in Friuli. Al suo attivo, oltre a più di 200 pubblicazioni, anche la presidenza dell’associazione dei primari ospedalieri (Anpo) fino ad un paio di settimane fa. Il nuovo primario uscirà dal concorso che l’Azienda provinciale per i servizi sanitari bandirà nei prossimi mesi e dovrebbe entrare in reparto a fine anno.

Dopo quarant’anni di professione da domani cosa farà?

Non lo so proprio. So quello che non farò.

E cioè?

Non proseguirò con la professione medica.

Perché?

Per un motivo molto semplice. Un ambito così complesso e in continua evoluzione come quello oncologico necessita di un continuo aggiornamento. Se non ci si comporta così si rischia di fare del male agli altri. E voglio evitarlo. Per adesso mi prenderò del tempo. Poi si vedrà.

Immagino saluterà i suoi collaboratori. Cosa dirà loro?

A medici ed infermieri dirò che abbiamo lavorato bene insieme e “costruito” l’oncologia medica a Trento. Continuate così.

Ha svolto tutta l’attività medica in strutture pubbliche. Una scelta?

E’ stata la vita. Le occasioni che mi si sono presentate davanti sono state nel pubblico. E anche prestigiose. Le ho ritenute appaganti. Non ho mai pensato di andarmene da questa realtà.

I tagli di bilancio investono ormai anche la sanità. Fino a quando è sostenibile questo andazzo garantendo un servizio adeguato? Dove scatta l’allarme rosso? E’ già scattato?

In Trentino non è ancora scattato. Ma, inevitabilmente, quel giorno arriverà perché si tratta di destinare risorse ad un settore in cui il risultato non è sempre certo come invece tutti vorrebbero.

Quindi?

Quindi, sia adesso ma anche quando arriverà quel momento le parole chiave devono e dovranno essere trasparenza e appropriatezza da parte dei medici nelle scelte terapeutiche e nell’uso dei farmaci ma anche della direzione aziendale e della politica nello stabilire le priorità e lo stanziamento delle risorse.

I progressi di questi ultimi anni nella cura dei tumori inducono all’ottimismo per il futuro o no?

Certo, non si può che essere ottimisti. Quando ho iniziato, quarant’anni fa, i risultati erano molto modesti e, nella gran parte dei casi, deludenti. Oggi, invece, arriviamo ad una percentuale di più del 60% di pazienti che guariscono e che hanno lunghe aspettative di vita dopo aver contratto il tumore.

Vent’anni di responsabilità all’oncologico. Che contributo ritiene di aver dato?

Assieme ai miei collaboratori abbiamo aumentato le competenze scientifiche ma anche la capacità di applicarle al singolo malato. Un lavoro di equipe che comporta la discussione e la valutazione comune su ogni paziente. Ne sono orgoglioso.

Qual è il suo rapporto con “il dolore degli altri”?

E’ professionale, certo, ma anche personale. Ci deve essere il massimo rispetto per “il dolore degli altri”. Bisogna capire, stare ad ascoltare, cercare di interpretare e quantificare il dolore fisico per poterlo dominare. Il dolore emotivo, spirituale, richiede invece partecipazione ed empatia che va al di là del mestiere. Da questo punto di vista lascio una squadra formidabile.

Di fronte a questo dolore quotidiano c’è mai stato un momento che si è detto “adesso non ce la faccio più”?

Specialmente le sofferenze di qualche giovane hanno lasciato il segno. “Non ce la faccio” non l’abbiamo mai detto. Semmai, di fare di più e meglio.













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