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Dionisi: «Lo sport è puro divertimento: rifarei tutto da capo»

Il campione dell’asta che vinceva tutto e perse l’Olimpiade. «Altro che sofferenza! È stato bellissimo. Sempre»


di Paolo Mantovan


Quando vi commuovete per la gioia di un azzurro che vince alle Olimpiadi, ricordatevi che quel giorno a Monaco nel '72, alle qualificazioni, il tendine infiammato non permise a Renato Dionisi di saltare. Lui ci provò. Ma niente. E il suo volto triste non apparve in tv. Alla radio dissero solo: peccato, Dionisi si è ritirato.

Renato Dionisi a Monaco ci andò perché il Coni e la Federazione avevano insistito. Lui aveva già avvertito che il tendine non aveva buone intenzioni, ma lo convinsero, perché lui era da medaglia. Forse d'oro. Perché aveva una tecnica formidabile, perché alle gare lui non si faceva intimidire da nulla. L'unico nemico era il tendine. Se quello iniziava a surriscaldarsi erano dolori. «E che dolori! Non avete idea» dice Dionisi, torbolano-arcense (del Linfano) del 1947, mentre calpesta la pista di atletica del campo sportivo di Arco.

«Guarda che bellezza: qui in Busa tutto è meraviglioso». Ma non è che vuol cambiare discorso, lui non fa deviazioni: continua a correre diritto con l'asta. D'altra parte è un campione, Olimpiadi o no. Nel salto con l'asta era arrivato a 5.45 quando il record del mondo era appena dieci centimetri più su. È stato campione europeo indoor. Nel 1968 era pure diventato campione del British Athletics Championships. Del British? «Sì! Sai cos'è lo spirito british, no? Loro decidevano che c'erano degli atleti meritevoli e li invitano anche se non facevano parte dei paesi del Commonwealth. Mi invitarono e vinsi con 5 metri e 3 centimetri. Poi feci piazzare l'asticella a 5,18, per tentare il mio record. Una signora distinta si avvicinò e mi disse: scusi, la gara è finita. In che senso? Stop it, please! Ah. Eravamo in uno stadio dove si facevano anche le corse dei cani: erano le cinque e dovevamo smammare perché stava uscendo il pubblico ed entravano gli scommettitori. Incredibile. Il giorno dopo tornai lì per le premiazioni: e così come mi avevano fatto sloggiare per i cani, così mi premiarono con la regina Elisabetta. Sì, lei in persona! "Oh, you are an italian carabiniere!" mi disse mettendomi la medaglia al collo, ah ah ah».

Ride Renato Dionisi. «Sì, ne succedevano di tutti i colori, ma non eravamo al centro dei riflettori come sono oggi gli atleti. Forse è anche per questo che sono così stressati, che sentono così tanta responsabilità. Che chiedono scusa se perdono. Io non avevo queste pressioni. Zero». Sicuro? «Sicuro. Io facevo sport perché mi piaceva saltare con l'asta. Era bello. È bello». Cioè vuol dire che non sentiva il sudore e la sofferenza? Fabio Basile, che ha vinto la medaglia d'oro nel judo domenica scorsa, ha dichiarato: "Per diventare campioni bisogna soffrire. Soffrire così tanto da fartelo piacere". I risultati non si ottengono con grande sacrificio e sofferenza? «Guarda, io quelle frasi vorrei sentirle dire da chi perde. Ho grande rispetto per tutti gli atleti e ho visto Basile in tv: è stupendo, gagliardo, un fenomeno. Ricordo che disse qualcosa di simile anche il canoista Rossi. Però io non la penso così. O meglio, la mia esperienza è un'altra. E vorrei avere vinto alle Olimpiadi per aver più peso nel dire queste cose, ah ah ah!». Niente sofferenza? «Ci vuole applicazione. Non sofferenza. Ci si allenava duro. Ma era divertente. Anch'io arrivavo a sera che ero cotto e andavo a dormire. Ma andava bene così. Io allo sport ci sono arrivato divertendomi. Ho imparato a nuotare nel fiume Sarca con gli amici e ci tuffavamo nel lago lì dove ora c'è la ciclabile sotto il Monte Brione, presente? Saltavamo dentro un buco che si apriva tra i rami di un fico: non vedevamo neppure dov'era l'acqua mentre prendevamo la rincorsa, sbucavamo in volo e sotto c'era il lago. Una corsa verso l'ignoto. Gare di vita». E si giocava a pallone in strada, si correva lungo i sentieri. «Sì, io saltavo con gli amici sull'erba, in campagna». Adesso invece ti spiegano la tattica fin da bambini, ma è così che si cresce? «No. Questo è tecnicismo isterico. Così non si formano i talenti, anzi a volte i potenziali talenti si allontanano perché non si divertono, mentre c'è chi impara subito a ottenere i risultati ma poi non cresce perché non ha margini di sviluppo».

Ma Dionisi qualche cruccio ce l'ha? Rivedendo il film della sua carriera cambierebbe qualcosa? «Nulla. Allora l'idea era quella di gareggiare sempre: adesso si programmano, nessuno fa tutte le gare. Noi invece non si vedeva l'ora di andare a far la gara. Come potrei fare diversamente? La testa di allora era quella, ragionerei nello stesso modo». E poi parliamo di Tokyo, di quando prese la telecamera (che là costava poco) per filmare i salti di tutti ("Li guardavamo col prof Giuliani: eravamo molto tecnologici: un proiettore e un telo sul muro!"). Lui aveva 17 anni ed era già alle Olimpiadi. «Ma non avevo un allenatore che mi seguisse. Mi mandarono così. E saltai tutti i giorni con i francesi. Quando arrivai alla gara ero stanco morto, ah ah ah. L'unica cosa che mi spiace è non aver potuto giocarmi davvero l'Olimpiade. Se a Monaco non avessi avuto il tendine infiammato potevo fare la gara. Non ho detto che vorrei aver vinto: avrei voluto giocarmela». Poi parliamo di Mennea, di Panatta, di Klaus Dibiasi, di Borg. E poi gli anni in Fiat a Torino, gli anni da preparatore dell'Atletica Alto Garda.

E mentre ci salutiamo, si volta e torna al punto di partenza. «No. Non cambierei nulla. Ho vinto, ho avuto dolori, ho perso grandi occasioni. Ma ho fatto quello che desideravo. Rifarei tutto».













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