la storia

Da Spiazzo al confronto con i drammi del mondo

Remo Fambri, 29 anni, vive a Ginevra e lavora per l’agenzia Unhcr dell’Onu. «Il mio lavoro è preparare gli interventi in vista delle emergenze che verranno»


di Katia Dell’Eva


SPIAZZO. È un ragazzo trentino come tanti, Remo Fambri, classe 1987, cresciuto a Spiazzo. Ama la natura ed è appena tornato a casa con un seguito di amici per arrampicare nella zona di Arco. Tornato, perché, benché le sue origini e la sua famiglia siano in Val Rendena, lui ormai vive a Ginevra. Dive fa parte del team di collaboratori dell'Onu che si occupano dell'emergenza rifugiati nel mondo, l'Unhcr.

Com'è arrivato da Spiazzo all'Onu?

«Dopo il diploma al liceo scientifico di Tione, ho frequentato la facoltà di Studi Internazionali a Milano. Un'università che ho scelto, amando da sempre viaggiare, quasi solo perché attratto dalla parola “internazionale”. L'interesse per i diritti umani è nato dopo, e mi ha portato ad iscrivermi al master dell'Oxford Brookes University, in Inghilterra, in Development and Emergency Practice. Nel frattempo ho svolto anche un periodo di stage in Indonesia, con l'Ocha, l'Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, che aiuta i governi a gestire le emergenze umanitarie. Terminati gli studi, ho passato quattro mesi in Sudan, dove ho insegnato inglese, per poi approdare all'Unhcr. Il mio primo periodo in quest'agenzia dell'Onu l'ho trascorso in Libano. Ci sono stato tre anni. Contemporaneamente, nel 2014, con i primi attacchi di Isis, ho portato il mio aiuto anche in Iraq. Poi, nel 2015, sono stato in Tanzania, al confine col Burundi e, di recente, in Grecia».

Di cosa si occupava, là?

«Il mio lavoro consiste nel coordinare una risposta che sia all'altezza dell'emergenza umanitaria in corso, ma che tenga conto anche della situazione in cui essa si è venuta a creare. Per fare questo, raccolgo informazioni, pianifico dove e come si dovrebbe intervenire, attivando i “settori” dedicati ai beni di primo soccorso: protezione, acqua, sanità e igiene, cibo, e accampamenti. Ciò che è fondamentale, nel portare aiuti, è però anche evitare conflitti con i locali, favorendo, al contrario, l'integrazione. Visto il gran numero di allarmi degli ultimi anni, oggi, la divisione delle emergenze dell’Unhcr sta suddividendo i suoi dipendenti in due team, uno comporto da persone in “stand by”, che si attivano quando serve, dove serve, e uno dedicato invece – e qui sta la novità – alla preparazione. Io faccio parte del secondo gruppo e, negli ultimi tempi, mi dedico all'analisi delle situazioni a rischio, in modo tale che l'Unhcr possa essere pronta ad agire prima che l'emergenza esploda. È infatti possibile sapere, per sommi capi, il numero di rifugiati che si mobiliteranno e il confine da cui passeranno. Questo vuol dire salvare vite, per la tempestività degli spostamenti dei beni di prima necessità».

Qual è un'emergenza ad oggi prevedibile, per esempio?

«La Tanzania. A dicembre la situazione si complicherà, poiché, da un lato, in Burundi le condizioni sono di estremo caos, e dall'altro, ci saranno problemi legati alla politica della Repubblica del Congo, che avrà – o forse, e sarà anche peggio, non avrà – le elezioni».

Visto che Lei è un esperto di emergenze, che opinione si è fatto della situazione attuale italiana?

«Credo semplicemente che, spesso, la gente non si metta nei panni dei rifugiati: un rifugiato non è un immigrato, non ha altra scelta, se non quella di lasciare il suo Paese. Ci si dovrebbe chiedere più spesso “cosa farei io, al posto suo?”. Aggiungo poi che, nel periodo che io ho trascorso in Libano, questo stato ha ospitato un milione di rifugiati: un quarto della sua popolazione. In quel caso, si poteva davvero parlare di crisi».













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