«Chiesa, prendi esempio da Fabrizio»
Il monito del vescovo Tisi alle esequie di padre Forti. Duomo straboccante e commosso, con tanti dei suoi «ultimi»
TRENTO. Mai. Mai s'è vista in Duomo, come ieri mattina, una simile folla, per nessuna occasione. Duemila persone? Magari anche di più. Tutte per lui, per padre Fabrizio, racchiuso in una bara chiara coperta da un tappeto di rose rosse dedicategli dalla sorella e dal cognato. Ai due lati dieci poliziotti penitenziari sull'attenti. Più avanti davanti all'altare con la musica d'organo in sottofondo quaranta e più fra sacerdoti e frati che facevano ala al vescovo monsignor Lauro Tisi. E la sua omelia è stata breve ma vibrante, quasi una requisitoria contro le inadeguatezze della Chiesa: “Cara Chiesa, - ha detto con grande fermezza - prendi esempio da padre Fabrizio. La tua voce non si alzi più per condannare, ma per infondere speranza. Caro Fabrizio, aiutaci a non disperdere la tua eredità. Aiutaci a considerare nostra anche quella che era la tua famiglia, composta da poveri, carcerati, emarginati, stranieri. ”
Sotto le navate, pigiatissimi, spuntavano visi emaciati, stanchi, sguardi fissi in avanti, quasi nel vuoto. Sono apparsi vestiti rassettati di barboni improvvisamente puliti. Ma tra quelle duemila persone c'erano anche facce comuni, di giovani e meno giovani, di donne belle ma non eleganti, di mamme con i passeggini o con i bimbi nella sacca di canguro, di uomini tratti da un variegato ceto sociale.
Se padre Fabrizio Forti è morto in un fragoroso silenzio nella sua cella, da solo, in una notte di questo tiepido autunno, senza disturbare e chiedere aiuto a nessuno – forse, semmai s'è accorto di passare a miglior vita, ha chiesto a Dio perdono per eventuali suoi peccati enormemente ricompensati, diciamo noi, dal suo amore per il prossimo - beh, se è spirato in questo fragoroso silenzio, ieri per le esequie nella cattedrale trentina c'è stato, dapprima, un altrettanto fragoroso silenzio.
Dovuto, necessario, sincero. Perché, a differenza delle gioie che non sono tali se non partecipate a qualcuno, i dolori autentici possono o addirittura devono rimanere stretti, quasi blindati, finché possono, nel cuore di ognuno. Così, in un primo tempo, è stato ieri per la morte di padre Fabrizio, il cuoco dei poveri che, ammirandolo in cucina con il mestolo in mano, si sarebbe potuto definire “chef dell'umanità”, “sommelier della bontà”, “cameriere dell'uguaglianza”.
È stato, dapprima, un silenzio dettato dallo stupore, dall'ammirazione, dal senso di grandezza di quest'uomo, racchiuso nella bara con la sua nivea barba ormai un tutt'uno nel pallore della morte. C'era un senso di inadeguatezza e di inferiorità di fronte a un uomo che, attore e protagonista di cose straordinarie, considerava i suoi comportamenti normali, giusti, degni di un uomo. Sì, rovesciando l'amaro senso del titolo del famoso libro di Primo Levi “Se questo è un uomo” padre Fabrizio Forti era davvero un uomo, e quale uomo!
È superfluo ripetere, in senso biografico, quanto un volontario, due scolaretti, un amico assieme a lui a Sarajevo con grande commozione hanno detto al microfono a proposito delle sue iniziative umanitarie per la pace, per i psicolabili, per i tossicodipendenti, per i detenuti di Gardolo e, ovviamente, per i poveri alla mensa dei Cappuccini.
Ieri in Duomo sui visi non c'era dolore, ma un grande magone, figlio di un interrogativo senza risposta: perché un uomo così giusto è stato “rubato” ai poveri precocemente? Tutti, in silenzio, si chiedevano il perché di una morte così repentina, non annunciata, avvenuta, appunto, in un tiepido autunno. Come le foglie che qua e là, in questi giorni, rinsecchite e gialle, ondeggiando nell'aria finiscono a terra in silenzio, anche Fabrizio, al pari di una foglia, ma stavolta non rinsecchita sebbene prematuramente staccata da un'improvvisa folata di vento, ha lasciato in silenzio la comunità trentina. Macché comunità trentina!, ha lasciato tutto il popolo dei diseredati, dei vinti, dei poveri, dei disgraziati, dei detenuti che vivevano e vivono nelle valli e dei centri urbani. E molti di loro, ieri, erano lì in duomo, commossi e ancora basiti.
Padre Fabrizio, ieri, simbolicamente, ha detto addio a quei cento e più poveracci che ogni pomeriggio alle cinque della sera si sedevano sui gradini di pietra che portano alla mensa dei Cappuccini in attesa dell'apertura. E aspettavano con il viso sereno, composti, affamati, ma sereni. Sì, ieri in Duomo c'erano loro: composti e sereni.
Tutte le sere erano lì, e saranno lì, alle cinque della sera. Viene in mente una poesia di Garcia Lorca. Se il poeta spagnolo cantò la disperazione per la morte dell'amico torero e, nel suo lirismo, anche la morte metaforica dell'umanità, qui su questi gradini, i poveracci, orfani di Fabrizio, tutte le sere, alle cinque della sera, canteranno in silenzio, il dolore per la sua morte.
In Duomo, ieri, il fragoroso silenzio degli oltre duemila di (poche) briscole e di (tanti) scartini, finalmente si è spezzato dall'applauso rivolto alle parole di chi, da volontario, ha condiviso con padre Fabrizio un pezzo di strada. Allora ha applaudito anche chi per la prima volta, forse, non si è vergognato di essere critico per queste forme di carità rimanendo tra i banchi spalla a spalla con quei poveracci che sono venuti per questo addio.
Per un momento questo film ci è sembrato di averlo già visto qualche anno fa in occasione del funerale di don Dante Clauser. Ma lui, don Dante, prima di trasformarsi in un misero tra i miseri, a differenza di padre Fabrizio, aveva scosso e percosso le coscienze sia religiose che “politiche” di piazza Fiera dal pulpito della chiesa di San Pietro mandando tutti al diavolo. Padre Fabrizio, no, ma i suoi “quaresimali” giornalieri tra i poveri hanno raggiunto uguali se non migliori risultati.