Che lavoro fa il sociologo? Il carabiniere
Una laurea scelta sempre più da militari in carriera. Schizzerotto: Trento in declino da molti anni
TRENTO. Sembra una boutade, ma le cifre parlano chiaro. E al giovane ricercatore Carlo Barone, fresco autore di un “Le trappole della meritocrazia” (Il Mulino) tutto da leggere, fanno dire proprio questo: «La risposta a che cosa fa un sociologo è il carabiniere». Lo ha spiegato nella sua relazione, che ha aperto la sessione pomeridiana di ieri del convegno “Sociologia, professioni e mondo del lavoro”, organizzato dall’Associazione italiana di Sociologia (Ais) in occasione dei 50 anni della facoltà. Incentrato sulla spendibilità occupazionale della laurea in Sociologia, l’intervento di Barone ha fornito al folto pubblico (oltre un centinaio tra docenti e studenti) una ricchissima serie di dati estrapolati dalle statistiche Almalaurea. Che dicono in sostanza tre cose.
Primo: chi decide di intraprendere questo percorso di studi si prepari al peggio, per via della crisi generale (con un sistema Italia che da tempo non riesce a creare un numero sufficiente di sbocchi per laureati sempre più numerosi), ma anche perché in effetti le già scarse prospettive sul mondo del lavoro per i sociologi sono ancora peggiori. E infatti devono attendersi maggiori difficoltà nel trovare un posto, stipendi più bassi e maggiore incongruenza fra titolo di studio e mansione effettiva. Secondo: una fetta sempre più larga di aspiranti sociologi è composta in realtà non da giovani “studenti/lavoratori”, che nei fine settimana magari si danno da fare in bar o negozi, bensì da “lavoratori/studenti” sui 40 anni, già occupati. Specie nel settore pubblico. E soprattutto tra le forze armate. Per tutti loro la laurea è dunque uno strumento da far valere per ottenere un aumento retributivo. Terzo: per non continuare a illudere troppi giovani, la facoltà deve concentrarsi sulla formazione in ingresso («più qualità e meno quantità«) e ricalibrare le lauree triennali, quelle che meno certezze danno in chiave occupazionale, differenziando tra due anni comuni a tutti e un terzo, per così dire, sdoppiato. Il primo per chi poi vorrebbe iniziare a lavorare (prevedendo così una gestione dei crediti soprattutto in tirocini e stage), il secondo per chi intende invece proseguire nel biennio magistrale. Partendo dalla considerazione che metà degli studenti, questo dicono i dati, comunque non lo faranno.
Un quadro insomma poco roseo, che fa il paio con quello illustrato nella mattinata da Antonio Schizzerotto, uno degli esponenti“storici” e più autorevoli della facoltà di via Verdi. Che il sociologo vede in crescente difficoltà già dalla metà degli anni ’90, un po’ perché non più unico punto di riferimento nazionale della disciplina, ma soprattutto per via di una sempre maggiore propensione alla “narrazione” sociologica piuttosto che all’analisi fondata su dati empirici, verificabili e al limite confutabili, raccolti su larga scala. Il che, ha spiegato Schizzerotto, è una logica perdente: «Il rigore formale di un qualsiasi modello messo a punto dagli economisti è vincente rispetto al giornalismo approssimativo che spesso è stato fatto». Oggi il convegno prosegue in aula Kessler, a partire dalle 9 e per l’intera giornata: interverranno testimoni provenienti dal mondo delle professioni, in sette laboratori tematici, la mattina su Ricerca, Comunicazione, Industria e terziario e Terzo settore, il pomeriggio su Sanità e salute, Servizio sociale e Territorio e ambiente. ©RIPRODUZIONE RISERVATA