Carlos, il trentino «desaparecido» da quasi 40 anni
La mamma e la sorella raccontano l’angoscia per il ragazzo sparito a Buenos Aires a soli 22 anni, «preso» dalla dittatura
TRENTO. Sono passati quarant’anni da quel marzo 1976 che aprì la strada al golpe militare in Argentina del generale Videla. Qualcuno la definì la "sporca guerra" e fu una lunga sporca guerra, fino al 1982. Una dittatura sanguinaria, che rapì, torturò e uccise più di 30 mila persone, tra loro migliaia di connazionali e una decina di trentini. In Trentino si tengono incontri e manifestazioni per i discendenti degli emigrati trentini, tuttavia nessuno ricorda, o vuole ricordare, quella terribile pagina di storia. Nessuno ha invitato genitori, fratelli o sorelle dei desaparecidos in Trentino per raccontare quella vicenda. Nessuno ha saputo più nulla di Carlo Guillermo Berti, 22 anni, studente, originario di Denno, di Gloria Marta Olivieri, originaria delle Giudicarie, di Aida Alicia Pastarini, 24 anni, studentessa, originaria da San Lorenzo in Banale, di Hugo Josè Agosti, 23 anni, studente, sempre di origini trentine, di Nestor Luis e Cristina Morandini, fratelli, studenti, con nonni trentini, di Alessandro Daniel Ferrari, di cui si sa solo che era figlio di emigrati trentini. Nelle liste spuntano altri cognomi trentini: Lenzi, Pisoni, Spagnolli, Stefenelli, Casagrande, Simonetti, Cortelletti, Demarchi, Grandi. Ci fu anche la triste vicenda di una donna incinta (il cognome è trentino) fatta partorire e uccisa, mentre il figlio fu affidato a chissà chi.
Ma come sono morti? Le brutali tecniche per uccidere le persone erano le più varie. Bendati per privarli della possibilità di vedere in faccia i loro sequestratori, uomini, donne e anche ragazzi furono sottoposti a torture, che duravano giorni e giorni. I centri clandestini di prigionia erano circa 340 in Argentina. L'assistenza medica era inesistente; le condizioni igieniche penose. Quando le guardie parlavano di trasferimento per i prigionieri si avvicinava il giorno della morte. Ai condannati spesso iniettavano sostanze chimiche per addormentarli o intontirli, trascinati poi su aerei, che sorvolavano l'oceano, venivano scaraventati nel vuoto ancora vivi. Il velivolo, un Hércules, decollava tutti i giorni da Campo de Mayo. Ci furono anche le fucilazioni di massa e la sepoltura in fosse comuni. I corpi, a volte, venivano bruciati, come, pare, nel caso di Aida Pastarini.
I trentini non furono solo vittime: c’era anche chi torturava e uccideva. In particolare un trentino compare come aguzzino nel documento Nunca Mas, redatto dalla commissione governativa argentina, che ha indagato su quei crimini.
Non ci sarà giustizia per Carlos. Carlos Berti era un giovane studente di 22 anni, frequentava l’università in Argentina. Il nonno era trentino, lasciò Denno in val di Non per cercare fortuna oltre Oceano. Nato nel ’55 oggi avrebbe 61 anni. Ma Carlos scomparve nell’aprile ’77, sequestrato e ucciso dai militari del regime argentino. Il suo corpo non è mai stato ritrovato. La madre si è costituita parte civile nel processo penale presso il Tribunale di Roma, chiedendo l’incriminazione di coloro che hanno ammazzato suo figlio. Fece i nomi dei colpevoli: i militari Carlo Guillermo Suarez Mason e Santiago Omar Riveros. Il processo non si è mai celebrato e non ha ottenuto giustizia. Silvina Berti è la sorella di Carlos ed è una professoressa universitaria di Rio Cuarto, una città nella provincia di Cordoba. «Ancora oggi, durante l’estate quando cammino per la piazza centrale di Rio Cuarto, sotto i tigli, chiudo gli occhi e rivedo tutti noi da bambini a rincorrerci, giocare a nascondino, mangiare il gelato, aspettando il carnevale. Abbiamo frequentato la scuola secondaria del Colegio Nacional. Carlos era intelligente e non lo dico soltanto perché era mio fratello. Erano gli stessi insegnanti che gli riconoscevano questa dote, così pure i suoi compagni di classe. Li aiutava nei compiti, in classe e al termine dell’ultimo anno di quinta i suoi compagni scrissero sul muro della scuola: “Carlos Berti: salvatore”. Non saprei dire quando Carlos cominciò ad interessarsi di politica, anche se in famiglia, soprattutto quando si pranzava, si discuteva su ciò che stava accadendo nel paese e nel mondo. E già si creavano le divisioni: papà da una parte, i miei fratelli dall’altra ed io un po' in disparte, a fare da spettatrice anche a causa della mia età. Dopo il Colegio andò all’università di Córdoba, all’Istituto di matematica, astronomia e fisica. Anche lì era un brillante studente ed è lì che iniziò la sua vera militanza politica. Dopo il colpo di stato del 1976, la sua casa fu perquisita, rovistarono ovunque, anche in soffitta e tra le pareti. Ma Carlos e un compagno riuscirono a scappare, mentre José e un altro ragazzino di soltanto 14 anni furono uccisi. Inseguito e braccato, Carlos abbandonò Cordoba e partì per Buenos Aires, dove conobbe la donna che sarebbe stata la sua unica fidanzata. Era una militante contro il regime militare, soprannominata “la nonna”. Pur nella clandestinità, ebbero momenti intensi e un giorno mi disse: "L’uomo diventa pazzo quando s’innamora". L’11 aprile del ‘77 Carlos partì per un appuntamento per mettersi in contatto con altri militanti. Non fece mai più ritorno. Non fu mai visto in nessun centro di detenzione illegale. Carlos sparì nel nulla. Svanito! Le autorità negarono che fosse stato catturato, alla mia famiglia dissero che non sapevano nulla. Desaparecidos! La dittatura ha cercato di cancellare 30 mila desaparecidos come Carlos, ha tentato di recidere ogni legame, ogni affetto. Ci ha provato, ma io, insieme a molti altri, siamo qui a testimoniare che non ci è riuscita. Così oggi condivo pubblicamente la sua storia e la mia storia. Così oggi Carlos smette di essere un desaparecidos e torna a essere una persona».
Lia Berti è la madre di Carlos. L’età non le ha portato via i ricordi. «Eravamo una famiglia di classe media: mio marito medico ed io funzionaria comunale. Avevamo sei meravigliosi figli. In famiglia si viveva felicemente, fino al giorno che arrivarono i “salvatori della patria”, i militari del mio Paese. Dovevano salvarci, dissero, e così in Argentina abbiamo 30 mila desaparecidos, senza contare quelli che hanno patito prigione e tortura. Per i governanti e i militari, che si credevano uomini superiori, la cosa più terribile era un giovane che pensava e che desiderava un mondo migliore e giusto. Eravamo costantemente in contatto con Carlos e pensavamo che sarebbe stato meglio per lui abbandonare l’università. Saremo stati più tranquilli. Però tra la fine di marzo e i primi giorni di aprile del ’77 perdemmo tutti i contatti con lui. Ogni 60 giorni dovevo recarmi a Buenos Aires per presentare alla polizia una nuova richiesta di ricerca di mio figlio. Tutto è stato inutile. Dal 1977 ad oggi non ho mai saputo nulla di lui, di mio figlio. Mi resta solo un mucchio di carte per tutto l’amore che ho avuto, che ho e che avrò per questo essere meraviglioso che, a soli 22 anni e pieno di illusioni, voleva un mondo migliore. Una volta ho letto che una persona muore veramente quando nessuno lo ricorda. Ecco perché lui è vivo nei nostri cuori fino alla fine della nostra vita. Carlo è qui nei nostri cuori».
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