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«Sognavo di essere una principessa, ora sono un gay democristiano»

Dall’infanzia senza padre alla consapevolezza dell’omosessualità. Il presidente dell’Arcigay di Trento Shamar Droghetti si racconta


Jacopo Strapparava


TRENTO. Che nome è Shamar?

Me lo chiedono spesso. Un nome strano. Da piccolo facevo fatica a portarlo, a sentirlo mio. Gli altri bambini mi chiedevano: “Shamar, sei straniero?”. “Shamar, che nome hai?”. Mia mamma dice di esserselo inventata. Crescendo ho scoperto che la parola esiste davvero, in arabo e in ebraico. Significa “colui che porta il gregge”.

Chi è tua mamma?

Si chiama Antonella. Io sono nato a Merano il 27 luglio 1988, lei aveva 23 anni, era la segretaria del sindaco. Ha fatto tante cose. Ora è dipendente in un tabacchino.

E tuo papà?

Lui e la mamma si sono separati che avevo un paio di mesi. L’ho conosciuto quando avevo 17 anni, per un po’ le nostre strade si sono intersecate. Ora abbiamo perso i contatti. Non so nemmeno se sia in Italia. Porto il suo cognome.

Ti è dispiaciuto crescere senza papà?

No, direi di no. Mia mamma e mia nonna mi hanno dato tutto l’affetto di cui avevo bisogno. Devo dire che quando avevo quattro anni mia mamma si è risposata. È finita male anche lì. Ma così è nata mia sorella, Solei. Come “sole” in francese, ma senza la elle. Un altro regalo della mamma creativa.

Cosa ricordi di quel periodo?

Mia mamma era finita a servizio al Blumau, ristorante di Merano, il titolare era suo zio. Ricordo che giocavo nella dispensa, tra le casse delle bibite. Ricordo che la mamma faceva lavorare anche me: il mio compito era stirare i tovaglioli. In più, ricordo che facevo fatica a parlare.

Racconta.

Da piccolo non riuscivo a pronunciare le lettere palatali. La emme, la enne, la erre, la ti. Non riuscivo a farmi capire, non riuscivo nemmeno a dire il mio nome. Parlavo una lingua tutta mia, comprensibile solo da mia mamma, al massimo da mia nonna. Per questo non ho mai imparato il tedesco e ancora oggi faccio fatica con le lingue. Ricordo benissimo il momento in cui sono riuscito a pronunciare la ti e la erre. Eravamo in macchina, andavamo dal logopedista. Ho detto “treno”. Ho cominciato a ripeterlo. “Treno, treno, treno”. E non mi sono più fermato.

Un’infanzia difficile.

Non la definirei difficile. Sicuramente è stata un’infanzia piena.

Quando hai capito che ti piacevano gli uomini?

In prima media. Un mio compagno di classe. Ma all’epoca non si parlava di queste cose, ho dovuto fare tutto da solo. Ci ho messo un anno, fu difficile, venni anche bocciato. Passavo i pomeriggi in biblioteca, alla fine trovai un libro intitolato Ragazzi che amano ragazzi. Ero io.

I tuoi compagni?

Te lo puoi immaginare. Ero un bersaglio perfetto. I capelli lunghi. Silenzioso. Impacciato. Mi piacevano i libri e i computer. Per anni ho avuto un superpotere: l’invisibilità.

E il tuo amico?

Lui no. Lui, a suo modo, mi è stato vicino.

E tua mamma?

Per accettarmi ho impiegato tutta l’adolescenza. Mia mamma è stata fondamentale. Non disse niente, ma aveva capito. Allora faceva la barista, e mi mise dietro il bancone. “Shamar, quando parli con i clienti, devi guardarli negli occhi”. Mi aiutò a superare la timidezza. Poi decise che avrebbe voluto sapere tutto sul mondo in cui sarei finito. Rilevò il bar Ponte Romano, ritrovo gay meranese. Capii che non ero solo. Ho visto le prime coppie di uomini. Ho iniziato a leggere la rivista Pride, strappavo le pagine di nascosto e me le portavo a casa. A 17 anni presi a uscire con un gruppo di amici. Tutti come me. Andavamo indiscoteca, all’Aprés. Vivevo cotte fulminanti, passionali. Fu in quel periodo che successe una cosa orribile.

Cioè?

Una sera uscivo con il mio gruppetto, incontrai un amico di famiglia. Mi guardò. “Ho visto come sei, lo dirò a tua mamma. Sarà molto dispiaciuta”. Io passai una notte intera senza chiudere un occhio. Il mattino dopo, mia nonna mi trovò sconvolto sul divano. “Nonna, ti devo dire una cosa”. A lei venne da piangere. “Avrai una vita molto difficile”, “Non ti sposerai mai”. Mi abbracciò. Capii dopo che mia mamma l’aveva preparata.

Ma durante quegli anni non ti è mai capitato di ritrovarti a guardare una ragazza?

No.

Le donne non ti dicono proprio niente?

Zero.

Il tuo primo fidanzato?

Fu dai 18 ai 23-24 anni. Ero già a Trento per l’università. Un amore alla Walt Disney, romantico. Sognavo il principe azzurro che venisse a salvarmi. Ovviamente la principessa ero io. Del resto, diciamo noi, chi non ha mai sognato di essere una principessa?

Capisco.

Ci siamo lasciati. Stavo male. Avevo bisogno di una direzione, mi sono buttato nell’attivismo. Il Centro Bruno. Universi Inversi, al bar Paradiso, di via Prepositura. Un’ottima palestra politica.

È così che sei entrato nell’Arcigay?

Erano anni effervescenti. Papa Ratzinger, il governo Prodi, i DICO, il Family Day. I Sentinelli in Piedi, il movimento catto-reazionario dell’epoca, organizzò una manifestazione in piazza Duomo. Paolo Zanella, oggi consigliere provinciale, convocò una contro-manifestazione. Pensai: “Non posso non esserci”. Ero in una fase molto rivoluzionaria.

Sbaglio o il vostro movimento somiglia alla sinistra anni Settanta? Con il Partito comunista, serio e austero, e i gruppi extra-parlamentari, più massimalisti.

Per quel che mi riguarda, ora che sono presidente dell’Arcigay, sono molto più istituzionale, nelle forme, nel linguaggio. Se non suonasse male, direi che invecchiando sono diventato più democristiano.

Senti, nella sigla LGBTQIA+, ci sono la L, la G, la B e la T, e va bene. Poi ci sono la Q di queer, la I di intersessuali, la A di asessuali. Sai che non capisco cosa vogliono dire?

Queer ha un doppio significato. Da un lato indica chi non vuole riconoscersi in un’etichetta. Dall’altro, in inglese, è un insulto, è come dire “frocio”. Noi lo usiamo apposta, in senso politico, per riappropriarci della parola. Gli asessuali non provano la necessità di avere rapporti sessuali o attrazione sentimentale.

E gli intersessuali?

Noi diciamo “persone intersessuali”. Presentano contemporaneamente il sesso di entrambi i generi.

Gli ermafroditi.

“Ermafroditi” è dispregiativo. Se “persone intersessuali” è troppo lungo, puoi scrivere “intersex”.

Scusa se te lo chiedo, ma tutte queste categorie non sono un po’ artificiose? Le sfumature della sessualità e dell’identità sessuale non sono tante quanti gli individui?

Probabilmente sì. Il punto è che il mondo etero è sovra-rappresentato. Mentre per le minoranze la cosa più importante è auto-riconoscersi. Per questo servono le parole. Le parole possono costruire dei mondi.

Sabato 3 giugno a Trento si terrà il Dolomiti Pride.

Ci tengo moltissimo. Stiamo impazzendo per organizzarlo. Ci aspettiamo un grande successo. Farà il tutto esaurito. Ma saremo anche tutte esaurite.

Cosa pensi di Fugatti, che vi ha negato il patrocinio della Provincia?

Penso che abbia perso un’occasione. L’occasione di far vedere che anche la destra può far valere i nostri diritti. Come succede in altre parti del mondo.

Come credi reagiranno i trentini?

Credo che i trentini abbiano dimostrato di capire il punto della questione. E che il Pride ha una connotazione più ampia. Che è una manifestazione a favore di tutti gli oppressi e i dimenticati. Una manifestazione a favore dell’uguaglianza.













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