Marchionne, il manager globale, un oceano per l'Italia
Ha trasformato la Fiat. Lascia una mappa di sogni e uno spartito da scrivere
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Pensavamo di sapere tutto, di lui. Perché i successi superano le persone. Pensavamo di conoscerlo. Perché abitava sulle pagine dei giornali di tutto il mondo, nei tg, sui siti.
Di fatto Sergio Marchionne viveva dentro le nostre vite. Dentro una grande storia che è la storia di tutto noi. Ma non sapevamo nemmeno che il suo maglioncino era nero e non blu. Né conoscevamo le ragioni che un giorno l’avevano spinto ad abbandonare giacca e cravatta: un piccolo gesto dall’alto valore simbolico, come a dire che chi lavora venti ore al giorno non poteva concedersi certi lussi: si svegliava alle 3.30, sempre appeso fra più fusi orari, come ben sapevano i suoi collaboratori, più o meno amabilmente costretti a restare in pista praticamente ad ogni ora del giorno e della notte.
Sapevamo pochissimo della sua felicità: amava ritrovare il sorriso scaricando lo stress con qualche giro a velocità folle su una Ferrari a Fiorano. Non sapevamo del suo dolore, del male che oggi immaginiamo non abbia voluto affrontare in un determinato modo per concentrarsi su urgenze che considerava prioritarie: perché non riguardavano solo lui, ma migliaia di lavoratori, più di uno Stato, mille complicati equilibri. Non sapevamo nulla della sua famiglia, delle sue passioni, persino del suo pur importante passato di manager fra mondi molto diversi fra loro. Pochi sapevano della sua laurea in filosofia. Quella in giurisprudenza e i master arrivarono dopo. Era partito dal pensiero, da uno sguardo antico e profondo, anche da quella che un tempo si sarebbe chiamata lotta di classe, per capire il presente. Aveva davvero difeso il suo privato con un’attenzione straordinaria, della quale ci rendiamo conto solo ora, mentre le immagini vincenti, quasi eroiche vista la condizione dell’economia nel pianeta, superano di gran lunga i dubbi e le ombre che inevitabilmente accompagnano qualsiasi cavalcata, anche la più trionfale.
Impensabile avere il consenso di tutti. Soprattutto quando si prende in mano l’azienda simbolo di un Paese e la si trasforma, per salvarla (dettaglio non insignificante), in una multinazionale planetaria. Del resto, Marchionne, amava Daniel Barenboim: un direttore d’orchestra, ma anche un ottimo pianista. Sapeva quanto fosse importante che ognuno suonasse la sua parte. Ma sapeva anche tenere insieme tutto, tutti. E sapeva suonare da solo, all’occorrenza. Con lo sguardo, solo all’apparenza mite, di un visionario. Anche a chi lo ha incontrato poche volte, dava l’impressione di essere garbatamente risoluto, dotato di un carisma insieme silenzioso e palpabile: sempre in un qui e adesso e in un altrove che disegnava con rapidi movimenti delle mani. Il suo modo di parlare, quasi a tradurre i pensieri più che le parole, gli permetteva di andare sempre dritto al punto. Con intelligenza spiazzante, ironia solo all’apparenza ingenua, cinismo irriverente, durezza inevitabile e talvolta incompresa. E il punto, al di là di quanto oggi si possa dire o pensare, è che lui s’è speso come pochi per trasformare una monarchia in decadenza - la Fiat degli Agnelli, la fabbrica di una Torino che ha saputo rappresentare a lungo l’intero Paese, con i suoi amori, i suoi rancori, le sue contraddizioni e i suoi problemi - in qualcosa di capace di resistere al tempo, alle bizze dei mercati, all’egocentrismo imprenditoriale o nazionale.
Delle sue scelte si discuterà a lungo. Ma Marchionne - che ha lasciato la scena ieri a Zurigo, a soli 66 anni, in quell’intimità che aveva protetto e tutelato con rara maestria - resta un oceano: fra una terra del prima e una terra del dopo. Il prima è noto ed è la storia della Fiat e, come detto, dell’Italia. Il dopo è tutto da scrivere. Ma lui ha lasciato la mappa. I sogni. I traguardi raggiunti e quelli da tagliare. Anzi, ha lasciato lo spartito.