Quando contro il colera  si erigevano edicole votive 

Le epidemie del passato. Una delle ultime in Valle di Cavedine si diffuse nell’estate del 1836 In 2 mesi a Calavino fece 50 morti, pari al 5 % della popolazione. Molti si prodigarono per i malati 


Mariano Bosetti


Calavino. Queste giornate di forzata reclusione in casa a causa del coronavirus ci spingono a qualche retrospettiva sul passato, che richiama i periodi di emergenza, collegati alle epidemie per lo più coleriche che di tanto in tanto si diffondevano fra la popolazione. Una delle ultime risale all’estate del 1836. Pare che il morbo sia stato importato da quei migranti stagionali della valle, che si recavano annualmente nel Bresciano e Veronese (allora territorio austriaco come il Trentino) a sfrondare gelsi per i bachi da seta; erano infatti chiamati “pelarini”.

Proveniente da sud soprattutto attraverso il bacino gardesano il morbo era scoppiato già dal 28 giugno a Riva del Garda (da allora al 10 settembre mieté nella cittadina ben 160 vittime) e da lì poi arrivò in valle con il primo caso a Sarche (24 luglio) e nel giro di un mese si registrarono 8 decessi, fra cui un bambino di 7 anni (Eligio Sommadossi), che fu il primo ad essere sepolto nel nuovo cimitero del paese.

Dopo il primo decesso, a Calavino venne convocato d’urgenza il consiglio comunale, che, presieduto dal capo-comune Giovan Battista Graziadei, nominò una commissione sanitaria, la quale a sua volta emanò le prime disposizioni, riguardanti la pulizia del paese (allontanamento dei letamai dalle case, il divieto di gettare immondizie nella roggia, …) e la nomina del personale sanitario per l’assistenza ai malati: 2 infermieri per gli uomini e un’infermiera per le donne. Il guardaboschi comunale Luigi Chistè (Gian) fu incaricato della sorveglianza delle case infette, della distribuzione dei disinfettanti e medicinali, poi della disinfezione delle camere dove erano avvenuti i decessi dei colerosi.

All’apice del contagio venne raddoppiato il numero dei fossori (da 1 a 2) ed in base alle disposizioni della Commissione giudiziaria, che disponeva l’allontanamento dei cimitero dall’abitato di almeno 100 passi. A Calavino venne individuato un campo del “legato Albertini” nei pressi della sorgente del Rio Freddo, dove venne costruita una tettoia per deporvi i morti durante le 48 ore previste prima della sepoltura, che si effettuava poco distante.

Nel giro di due mesi i morti della parrocchia di Calavino furono 50 (pari al 5% della popolazione). Per scongiurare il pericolo del contagio si facevano tridui, novene e processioni col canto delle litanie e l’invocazione dei santi protettori (S. Rocco, S. Antonio abate, S. Mauro, …). Fu appunto nel luglio del 1836 che si eressero delle edicole votive per far cessare l’epidemia nei vari paesi: quello a “Musté” a Cavedine, quello di S.Rocco al centro del paese di Stravino e a Vezzano lungo la strada del Borgo. A Calavino si restaurò il cadente capitello al “Maso”, lungo la via per Sarche e venne incisa su pietra a seguente iscrizione: “Se brami passeggiere un protettore, il cuor pentito dona al tuo Signore” – Lì XXII luglio MDCCCXXXVI – Poiché ogni fedel ora è persuaso – Che pei peccati il mondo è in naufragio – Per sospender il gran divin flagello - Che colèra si chiama o ver contaggio – Fu rinovato questo caputello – Per voto e zello dei divoti al Maso”.

La tradizione ricorda che ci furono molte persone che si prodigarono a lenire i dolori dei miseri colpiti dal morbo. Fra questi un giovane di 24 anni (da due anni sacerdote), che venne volontario ad assistere i colerosi e che una ventina d’anni più tardi diventerà parroco/decano di Calavino per ben 46 anni: si trattava di monsignor Luigi Gentilini.













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