I 2000 morti del Vajont: dopo 61 anni una ferita ancora insanabile
Nell’ottobre del 1963 il disastro che sfregiò Veneto e Friuli Venezia Giulia
LONGARONE. E' parola che fa ancora rabbrividire 'Vajont', 61 anni dopo il disastro che sconvolse la valle del Piave, al confine tra Veneto e Friuli Venezia Giulia, provocando quasi 2000 morti - 1.910 il conteggio ufficiale, 460 dei quali bambini. Lo è perchè, dopo tanto tempo, le ferita nelle popolazioni di Longarone, Erto e Casso e gli altri comuni colpiti dall'onda immane non si è mai rimarginata. Troppo dolore, troppi i corpi di vittime mai ritrovati - si parla di 450 - troppe attese di giustizia frustrate: il processo penale, chiuso nel 1971, ha portato a sole due condanne, un tecnico della Enel-Sade, e un funzionario del Genio civile.
Quanto ai risarcimenti, si è dovuto attendere l'anno 2000 per la sentenza che ha condannato lo Stato e in quota parte Enel e Montedison a pagare 77 miliardi di lire per danni morali e materiali. Quella data del 1963 è rimasta nella memoria collettiva del Paese, ed il 9 ottobre è diventata la "Giornata nazionale in memoria delle vittime dei disastri ambientali e industriali causati dall'uomo".
a premier Giorgia Melon lo ha ricordato con un messaggio sui social: "Il 9 ottobre 1963 - ha scritto - è una data che difficilmente possiamo dimenticare. Il disastro del Vajont è una tragedia che poteva e doveva essere impedita", i rischi e pericoli "che erano stati individuati e preallertati, rimasero però inascoltati. A distanza di 61 anni portiamo quella cicatrice nella nostra memoria e la utilizziamo come monito affinché tali disgrazie non avvengano più. L'Italia non dimentica". Non solo rimase inascoltata l'allerta delle popolazioni, contro un'opera portata avanti a tappe forzate dalla Sade per arrivare al collaudo prima della nazionalizzazione dell'industria elettrica. Anche la natura, al tempo, aveva dato segni inequivocabili: gli abeti nei boschi si erano piegati verso valle, dal monte Toc scendevano continui distacchi di materiale.
Come non bastasse, 4 anni prima, marzo 1959, in Val Zoldana, una frana di 3 milioni di metri cubi era precipitata nel bacino artificiale di Pontesei; un pre-Vajont senza vittime. Poi, alle 22.39 di quel 9 ottobre 1963, venne giù tutto: l'enorme frana di 260 milioni di metri cubi di roccia e fango si staccò dal Toc e precipitò nel bacino del Vajont, creando un'onda di 250 metri: una parte sbattè e risalì sul versante opposto, 'piallando' la parte bassa di Erto e Casso; quell'altra si gettò a 80 chilometri all'ora verso la diga, la scavalcò, e 30 milioni di metri cubi d'acqua piombarono su Longarone, radendola al suolo. Negli anni, è stata l'orazione civile di Marco Paolini, con lo spettacolo teatrale messo in scena nel 1993 davanti alla diga, trasmesso dalla Rai, a risvegliare il ricordo di quel dramma.
Quest'anno, invece, è stata posta la parola fine al tira-e-molla su chi avesse diritto a conservare i 5.205 documenti processuali del Vajont, che dopo la digitalizzazione resteranno per sempre a Belluno, nell'Archivio di Stato. Il nome della diga, tuttavia, fa ancora paura. Per questo Veneto e Provincia di Trento sono contrari ad un nuovo progetto idroelettrico di una diga sul torrente Vanoi, proposto da un Consorzio di Bonifica in un'area geologicamente fragile. Luca Zaia ha messo le mani avanti. "aspettiamo cosa dicono i tecnici. Non vogliamo che la diga del Vanoi sia un altro Vajont".