«Detenuti, ma non per sempre: hanno diritto a una chance»
La Garante Antonia Menghini: «L’istruzione e la formazione sono attività fondamentali per una sana reintroduzione nella società»
TRENTO. La professoressa Antonia Menghini è la Garante dei diritti dei detenuti della Provincia di Trento.
Lei, oltre che docente alla facoltà di Giurisprudenza a Trento, è anche Garante dei Detenuti e delle Detenute. Come è arrivata a svolgere questa funzione?
La mia candidatura è stata diciamo così “naturale” per l’interesse che da sempre il tema della pena riveste per me. Il mio primo lavoro monografico riguarda infatti queste tematiche e così anche il mio ultimo libro, recentemente pubblicato. Dal 2011 insegno anche Diritto penitenziario presso la Facoltà di Giurisprudenza di Trento.
Il suo compito è di carattere generale (qualità della vita dei detenuti, rispetto dei loro diritti...) o si riferisce alle esigenze di ciascun detenuto/a?
I Garanti sono figure di garanzia per la tutela dei diritti dei detenuti. Pertanto può capitare che la violazione del diritto lamentata riguardi un singolo detenuto come un gruppo o anche tutti i detenuti, non solo quelli ristretti nella casa circondariale di Spini di Gardolo. Per parte mia, ho sempre inteso il mio compito come comprensivo di quello di svolgere colloqui anche con i singoli detenuti.
Quali sono le iniziative virtuose che possono far diventare il tempo della detenzione un momento di crescita per ogni detenuto/a?
Certamente, quando ci si riferisce al trattamento rieducativo (termine che andrebbe a mio modo sostituito perché evocativo di qualcosa di imposto dall’alto e non di condiviso dalla persona detenuta), il pensiero corre soprattutto all’istruzione e più precisamente alle attività formative e professionalizzanti, oltre che al lavoro, che è evidentemente elemento fondamentale del trattamento, senza dimenticare il fondamentale ruolo che debbono avere i contatti con la famiglia e, più in generale, con la comunità e il territorio.
Riesce a creare un rapporto diretto con i detenuti e le detenute? Le capita, a volte, di lasciarsi coinvolgere emotivamente dalle vicende dei detenuti e delle detenute?
I colloqui normalmente si svolgono su richiesta delle stesse persone detenute ed è quindi possibile che io possa incontrare anche più volte la stessa persona. Ascolto i loro problemi e le loro storie, che alle volte hanno piacere di condividere. Come dico sempre ai miei tirocinanti, per svolgere questo difficile ruolo non basta conoscere approfonditamente il diritto penitenziario, ma sarebbe necessario avere anche una formazione di base in psicologia. Credo che ciò valga per qualsiasi luogo in cui si incontra sofferenza: è naturale portarne a casa una parte con te.
In quanto donna, trova che le detenute con lei si aprano più facilmente dei detenuti? Dipende. Alle volte sì, ma non necessariamente. Rammento perfettamente uno dei miei primi colloqui in cui un detenuto si era rifiutato di parlarmi proprio perché donna. Credo che successivamente sia stato una delle persone con cui ho svolto più colloqui.
Quale contributo possiamo dare noi cittadini e cittadine, uomini e donne liberi/e per aiutare il percorso dei detenuti e delle detenute verso un recupero concreto? Crede sinceramente che dopo la detenzione si possa ricominciare a vivere una vita normale?
La società può fare moltissimo, in primis considerando il carcere e chi lo abita non come qualcosa di “altro” rispetto al tessuto sociale. Le persone detenute sono destinate a ritornare in società e meritano una chance concreta. Lo stigma sociale che normalmente accompagna gli ex detenuti è una gravissima ipoteca sulle concrete possibilità di reinserimento. Qualche investimento in più sul versante della formazione professionalizzante e del lavoro sarebbe fondamentale, anche attraverso un maggiore coinvolgimento, rispetto a quanto già non accade, delle realtà del territorio (sia del terzo settore che del privato). Il lavoro è infatti l’unica vera possibilità di reinserimento sociale.
Una volta finito il periodo di detenzione, i/le detenuti/e sono ancora seguiti/e da qualche esperto o si trovano del tutto soli/e?
La PAT finanzia uno specifico servizio socio-assistenziale (denominato "Inclusione sociale delle persone sottoposte a provvedimenti limitativi della libertà personale"), attualmente erogato da APAS, con la finalità di sostenere le persone in esecuzione penale che si trovano in una situazione di disagio per motivi personali, familiari, socio-culturali. In particolare questo servizio, articolato in diversi interventi, è rivolto anche alle persone dimesse dal carcere residenti nella provincia di Trento e ai dimessi dal carcere residenti fuori provincia limitatamente a quei servizi che rivestono carattere d'urgenza. Rispetto a quest'ultima situazione, le persone dimesse dal carcere nel momento del bisogno devono infatti essere prese in carico dai servizi sociali territorialmente competenti. Inoltre, la PAT nel luglio 2020 ha sottoscritto con il Ministero della Giustizia e la Regione TAA il Protocollo d’intesa “Per il reinserimento sociale” con la finalità di realizzare un’azione integrata poiché questo tema non riguarda solo l’Amministrazione della giustizia ma interessa anche il territorio con le sue istituzioni pubbliche, il settore privato, il terzo settore e, più in generale, la comunità locale. In attuazione a questo protocollo è in fase di elaborazione un Programma d’azione triennale.
Quali sono le criticità che lei trova nella Casa circondariale trentina?
Come chiarito nella Relazione presentata a inizio dicembre 2022, le principali problematicità sono la carenza di personale, il disagio psichico (circa il 10 % delle persone detenute sono affette da gravi patologie psichiatriche), e la modesta offerta di lavoro (le persone detenute lavorano mediamente solo 76 giorni l’anno). In particolare a preoccupare è la gravissima carenza di educatori (solo 2 a fronte dei preventivati 8 per un totale di circa 350 persone detenute) e della Polizia penitenziaria che risulta tutt’ora pesantemente sotto-organico.